giovedì 25 aprile 2024

Non tutti subito

 


È vero, ovviamente, però è doveroso ricordare che gli Usa non hanno combattuto e vinto da soli. Tutti coloro che hanno combattuto contro il nazifascismo hanno dato il proprio contributo. Non tutti subito, perché in Spagna, dal 1936 al 1939, la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti assunsero la posizione di Ponzio Pilato, se non peggio. A Londra e Washington consideravano Mussolini un grande statista (Time gli dedicava le sue copertine e altri gli scrivevano lettere amorose). Non era un segreto per nessuno lauspicio che Hitler attaccasse ad est e non ad ovest.

La liberazione dai nazifascisti (tedeschi, italiani, finlandesi, croati, rumeni, ungheresi, slovacchi) di Stalingrado, Leningrado (assedio di tre anni che costò 900.000 civili morti), Varsavia, Auschwitz, Praga, Bratislava, Budapest, Vienna e Berlino, ha richiesto il sangue di più di 20 milioni di sovietici. Solo nella battaglia di Berlino i caduti dell’Armata rossa furono 80.000.

L’invasione dell’Unione Sovietica, l’operazione Barbarossa, è considerata la più grande operazione militare della storia. Il “fronte orientale” fu il più grande teatro di operazioni della IIGM. Sul fronte orientale combatterono e morirono più persone che in tutte le altre campagne della IIGM messe insieme. I combattimenti e le perdite della Germania nazista sul fronte orientale la resero vulnerabile alle invasioni anglo-americane in Italia e Francia, determinandone la totale sconfitta. 

Più morti, più morti

 

Un bel problema se ottant’anni dopo il 28% non è antifascista. Le buone abitudini non si possono perdere. A sentire che cosa dicono certi ministri (e altre glorie surrealiste) c’è da pensare che certe insolenze gratuite e imbecillità, il gusto per l’involontario paradosso, distinguano i fascisti (se preferite: i fascistoidi) da chi fascista non è.

Ma che cosa significa essere antifascisti in un paese in prestito alla Nato come l’Italia? Non si può avere simpatia per gli stronzi, ma neanche per la melma di certo antifascismo selettivo e a geometria variabile. Di quelli che non spendono una parola per le stragi a Gaza, per esempio. Gli implacabili filosofi del liberalismo che salutano con giubilo e senza nessun punto interrogativo l’invio di missili a Kiev. Dove vogliono che arrivino i missili, a Mosca? Ok. Poi, di rimando? Su twitter e altro non smettono mai di congratularsi a vicenda, ma saranno i primi a imboscarsi quando tutto andrà storto.

mercoledì 24 aprile 2024

Il diritto e il rovescio del più forte

 

Scrivevo ieri, a proposito di “libertà e uguaglianza”, che si tratta in genere di goffe esercitazioni scolastiche di coloro che vorrebbero, a parole e molto meno nei fatti, farsi rappresentanti non degli interessi di chi patisce questi rapporti, ma degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà.

Soggiungevo che senza toccare i rapporti di proprietà, questi nobili propositi dichiarati di libertà e uguaglianza diventano un insieme di reazionario e utopistico.

Esempi se ne potrebbero fare molti, uno dei più classici riguarda il rapporto tra padrone e salariato. Partiamo dal Codice Civile del 1804, detto anche Codice Napoleonico, che tanta parte ha avuto nell’informare il diritto civile moderno. L’articolo 1781 regolava i rapporti tra padrone e lavoratore: “Il padrone si crede sulla sua affermazione, per l’ammontare della paga, per il pagamento della retribuzione dell’anno trascorso e delle rate corrisposte per l’anno in corso”.

In altre parole, il padrone beneficiava di una presunzione di credibilità e spettava al dipendente dimostrare il contrario. Questa disuguaglianza di discorso tra padrone e lavoratore la dice lunga sulla visione del legislatore dell’epoca, più preoccupato degli interessi dei proprietari che di quelli dei lavoratori. Il diritto del lavoro verrà costruito lentamente, con l’obiettivo di riequilibrare i rapporti tra padrone e lavoratore, allontanandosi dal diritto comune che si basa sul principio ottimistico che due contraenti sono su un piano di parità. Cosa che non avviene nel mondo del lavoro poiché il proletario è in una posizione di inferiorità rispetto a chi ha il potere di assumerlo e licenziarlo a suo piacimento.

Il diritto attuale, almeno in linea teorica e di principio, tende a tenere conto delle molteplici forme di disuguaglianze tra gli individui, e in qualche modo si sforza di limitarne le conseguenze più gravi, consolidando i diritti dei più deboli e attenuando la posizione egemonica dei più forti. Bellissima ambizione, che però non può in alcun caso superare la contraddizione che sta alla base dei rapporti sociali tra le classi.

Questo discorso sull’uguaglianza, tanto cara al liberalismo progressista, si può estendere a ogni aspetto dei rapporti di classe. Nella realtà di ogni giorno, le cose stanno diversamente. Basti pensare ai tagli di spesa che riguardano la sanità pubblica e al fatto che ciò favorisce quella privata. Nessun problema per chi è ricco o benestante, costoro possono accedere benissimo alle cure della sanità privata. Lo stesso vale per la scuola: che senso ha aiutare le famiglie dei bei quartieri a iscrivere i propri figli alle scuole private visto che comunque possono accedervi?

Ora, apparentemente, salto di palo in frasca, parando di diritti e di uguaglianza in rapporto alla vicenda che vede da quasi ottant’anni contrapporsi israeliani e palestinesi. Si tratta della stessa logica che sottende il diritto privato borghese, la stessa retorica sull’uguaglianza basata su una disparità di fatto che non può essere in alcun modo colmata nell’ambito dei rapporti di proprietà borghese.

La settimana scorsa, mentre noi tutti (o quasi) eravamo impegnati a stabilire se i fascisti nostrani siano davvero fascisti oppure solo l’espressione di una deriva fascistoide, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato contro un progetto di risoluzione che proponeva di garantire alla Palestina la piena adesione alle Nazioni Unite. Il che avrebbe portato al riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese. Gli Stati Uniti hanno usato il loro veto per opporsi all’adozione di questa risoluzione e il loro vice ambasciatore, Robert Wood, lo ha giustificato in questi termini: “Questo voto [statunitense] non riflette l’opposizione a uno Stato palestinese, ma tale riconoscimento può nascere solo attraverso negoziati diretti tra le parti”.

Non abbiamo l’impressione di leggere un passo dell’antico Codice napoleonico del 1804? Le controversie tra padrone e dipendente saranno risolte dai rapporti di forza tra loro, senza interventi esterni per riequilibrare le disuguaglianze tra le due parti.

Si tratta dello stesso ragionamento che il diplomatico americano ha adottato per palestinesi e israeliani: sono su un piano di (fittizia) parità e dunque solo dei “negoziati diretti tra le parti” decideranno l’esito della loro disputa. Nessuno terzo, nessun esterno al conflitto potrà agire per ristabilire un giusto equilibrio nelle loro relazioni. Che vinca il migliore, il più forte prevalga (tra l’altro con l’aiuto di armi e dollari statunitensi) e che il più debole scompaia per sempre.

Il liberalismo anglosassone si applica qui con incrollabile cinismo: ognuno deve difendersi da solo (se è palestinese), senza interventi esterni, senza l’aiuto di altri Stati, senza il sostegno di un’autorità internazionale riconosciuta. Il libero mercato in tutta la sua asettica crudeltà.

I palestinesi devono far valere i loro diritti contro lo Stato israeliano sulla base di una palese disuguaglianza, illustrata dalle decisioni della Corte Suprema israeliana che quasi sempre respinge i ricorsi presentati dai palestinesi espropriati delle loro terre dai coloni (coloni!). Poi, se reagiscono contro questi e altri soprusi e violenze, diventano dei terroristi che meritano l’annientamento con le armi generosamente fornite dai Ponzio Pilato statunitensi ed europei.

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martedì 23 aprile 2024

"Il più quotato artista"

 

Gli eroi morti sono come questo mondo che sta per finire e che non smette mai di celebrarli: stanchi. Prendiamo Raymond Maufrais, del quale sto leggendo i diari pubblicati postumi, a differenza di Ulisse, dal suo viaggio non ritornò più a casa.

Nessuna Penelope attendeva il suo ritorno, tranne i suoi genitori. Invano. Raymond era un giovane uomo che non si sentiva a suo agio in nessun luogo della terra. È anche tornando a casa si sarebbe sentito estraneo. Ulisse era sfuggito all’ira di Poseidone, alla lussuria dei pretendenti, Raymond doveva sfuggire solo a sé stesso.

Il suo cane riconobbe Ulisse, mentre Raymond dovette uccidere il proprio per cibarsene. Nel 1736 Voltaire concludeva la sua poesia Le Mondain con un verso famoso: “Il paradiso terrestre è dove sono io». Una cosa è certa: quando lo scrisse non era nella foresta della Guiana francese. E Raymond non si trovava dove avrebbe potuto scrivere del paradiso.

«Questa sera sono invitato dai Bush a mangiare lucertola acquatica e riso. Un gran piatto nel centro, e ciascuno, cucchiaio la mano, vi attinge senza restrizioni. Mi piace dividere così, al chiarore del fuoco, la vita dei primitivi. Per questo ho intrapreso questo viaggio, per condividerla pienamente, senza essere infastidito da gente saputa.

«I Bosch hanno cantato buona parte della notte, ha fatto freddo, ha piovuto, impossibile dormire. All’alba scorgo su un ramo di un albero caduto, a pochissima distanza, una superba iguana. Senza alzarmi, dato che ho la carabina a portata di mano, sparo. Cade e lo recupero. Cotto con riso, mi serve da prima colazione» (p. 90).

Improbabile il parallelo tra Ulisse e Raymond, e non so se il francese avesse letto Omero. Potrebbe essere stato astuto come il greco, ma non è mai stato il re di una grande isola e anzi non lo fu di niente. Fin da subito un birichino, e dopo tante avventure non sempre consigliabili (anche Ulisse non è sempre stato un bravo ragazzo, la virtù permanente non caratterizza gli eroi), ha finito per incarnare, a modo suo e per poco, il mito dell’intrepido viaggiatore, forgiato in tante prove che ne basterebbe una sola per mandare sottoterra chiunque di noi.

P.S. Leggere libri, lo dichiara Micheletto Pistolotto, che ha la passione per il cattivo gusto, non serve a nulla. Lo conferma il ministro della cultura che sta dando spettacolo di terz’ordine (e non capisce che la questione non è solo quella del bilancio o dei sussidi, di non promuovere ciò che non deve essere promosso, ma quella dell’intelligenza), e l’intero governo (la cui aspettativa di vita va, ahimè, oltre questa legislatura) con l’adottata strategia della volgarità. Non è solo cinismo: “Il cattivo gusto”, disse Stendhal, “porta al crimine”.