martedì 16 maggio 2017

Digressione: dall'archibugio al drone



Ieri sera, su Rai Storia (canale 54), durante una puntata de Il tempo e la storia, condotto da Michela Ponzani, in un filmato di repertorio è stato citato il nome di Olympe de Gouges, e finalmente ho sentito pronunciare Olympe correttamente. La puntata era dedicata a Madame de Staël, il cui nome capeggiava gigantesco sullo sfondo dello studio. Non era scritto correttamente. Del resto in un paese dove vale tutto e il suo contrario, perché darsi pena per accenti ed apostrofi, figuriamoci poi per la dieresi e la pronuncia.

Nella puntata dello stesso programma del 12 scorso, dedicata alle guerre di Napoleone, il simpatico professor Alessandro Barbero ha sostenuto che i moschetti in uso durante le battaglie napoleoniche “erano così imprecisi che si è arrivati a calcolare che solo un colpo su 250 arrivava a colpire il nemico a 100 metri”.

C’è da chiedersi per quale motivo gli eserciti in epoca napoleonica, se fosse buono e sufficiente quanto sostenuto dal professore, non utilizzassero, invece dei moschetti, la tattica delle raffiche di frecce lanciate con l’arco lungo come sotto Edoardo III (1327-1377). Barbero il motivo non c’è lo rivela ma sappiamo tuttavia che nel XVI secolo, dunque ben prima di Bonaparte e pur nel contesto di fiducia nelle tradizionali armi da lancio, divennero ovvie le attrattive per le armi da fuoco.  

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Tutto come solito ebbe inizio soprattutto in Italia, la culla della rivoluzione militare (e non solo). È qui che furono combattute nel XVI secolo le più imporranti battaglie fra gli Stati italiani e tra quelli europei, tanto che la repubblica di Venezia decise di sostituire tutte le balestre con archibugi (non c’erano ancora i moschetti) e di equipaggiare, nel 1508, la milizia con armi da fuoco. Ben presto anche gli altri Stati si adeguarono.

Le prestazioni dell’archibugio lasciavano ancora molto a desiderare: un arciere ben addestrato poteva scagliare dieci frecce al minuto con ragionevole precisione fino a 200 metri, mentre occorrevano diversi minuti per ricaricare l’ingombrante archibugio degli inizi del Cinquecento. E però l’uso dell’arma da fuoco non necessitava di un particolare e lungo addestramento, invece per formare un buon arciere occorrevano anni ed un intero stile di vita. Inoltre, il miglior materiale per l'arco lungo era costituito dal legno del tasso, un albero a crescita lentissima e dunque molto raro.

Dopo il 1550 il moschetto s’affiancò al rudimentale archibugio e poi lo sostituì. Questa nuova arma poteva sparare una palla da due once (un buon calibro, dunque) con sufficiente forza da perforare anche una corazza alla distanza di 100 metri. Ecco il motivo, molto concreto, per il quale le armi da fuoco furono preferite alle balestre, agli spadoni a doppio taglio e, più gradualmente, alle picche.

Furono gli olandesi a datare la scoperta della tecnica “a raffica”. Lo sviluppo del fuoco a raffica, dalla fine del Cinquecento, rese indispensabile agli eserciti di dispiegarsi durante la battaglia, sia per offrire il minimo bersaglio e sia per sfruttare al massimo la potenza di fuoco. Ammassi profondi e in formazioni molto serrate come nel Medioevo sarebbe stati un suicidio sotto un fuoco a raffica. Fu così che le battaglie si combatterono in file il più possibile allungate, in linea, proprio a causa dell’efficacia del fuoco di moschetti e artiglierie.

Nel Seicento fu introdotto il moschetto a pietra con baionetta e cartucce pronte per il caricamento. I progressi tecnici rivoluzionarono tutta l’arte militare. La rapidità del caricamento delle armi fu migliorata a tal punto, specie nell’esercito svedese, che bastavano solo sei file di moschettieri per mantenere un tiro di sbarramento continuo (chi aveva sparato faceva contromarcia per la ricarica lasciando campo alla fila successiva). Alla fine di questo periodo troviamo un ordine di battaglia su tre file e una riserva.

Tuttavia non c’era modo di prendere una buona mira perché essendo calcio e cassa perfettamente dritti, a prolungamento della canna, non si poteva allineare l’occhio alla canna. In Francia, nel 1777, il calcio incurvato del fucile da caccia fu adottato anche dalla fanteria, e ciò permise un più preciso ed efficace tiro individuale. Toccò alla rivoluzione francese utilizzare questo progresso tecnico del moschetto, assieme all’affusto leggero dei cannoni.

Nel 1817, a Versailles, fu inventata una macchina “ingegnosissima” per rigare spiralmente le canne dei moschetti, ma solo nella seconda metà del XIX secolo questo tipo di arma fu sostituita da un fucile più leggero, a canna rigata e a retrocarica, con cartucce a polvere senza fumo (sporcavano assai meno le canne).

Dietro ogni grande successo militare, da Alessandro a Napoleone, passando per Gustavo Adolfo e Albrecht Wallenstein, c’è un miglioramento delle armi e conseguentemente un adeguamento della tecnica del loro impiego, quindi della tattica. Un discorso a parte andrebbe fatto per l’artiglieria e le opere di difesa (fortificazioni), ma non rientra qui nel tema.

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Ritorniamo al motivo per il quale, nonostante la cattiva efficacia del moschetto, esso divenne il padrone dei campi di battaglia, da dove scacciò tutti gli altri specialisti delle armi. S’è vero che con il moschetto ancora in epoca napoleonica era difficile colpire un bersaglio posto a 100 metri (ma anche molto più vicino), è altrettanto vero che lo scontro tra formazioni avversarie avveniva molto spesso a distanze ben minori di questa, praticamente vis-à-vis. Pertanto, l’alto numero di morti e feriti nel corso delle battaglie napoleoniche non si doveva solo ai colpi di artiglieria, di sciabola e baionetta. Si deve inoltre tener conto che il tiro di fucileria era eseguito di preferenza da squadre sparse, mentre le colonne conducevano l’attacco alla baionetta.

Pertanto è vero ciò che sostiene il professor Alessandro Barbero, ossia che i moschetti in uso durante le battaglie napoleoniche non erano molto precisi, ma all’imprecisione del singolo moschetto sulla lunga distanza si provvide con l’impiego di squadre di tiratori che sparavano a distanza ravvicinata, con un proficuo rapporto tra colpi sparati e assegnati (si era fatto largo il concetto di "concentrazione dello sforzo di fuoco").

Questa tattica fu portata alla perfezione da Napoleone (*). A Jena, per esempio, le linee prussiane, impacciate, in massima parte inutilizzabili per il combattimento in ordine sparso, furono letteralmente disfatte dal fuoco dei tiratori francesi. Per contro, a Waterloo, la brigata di Kempt, apriva un fuoco micidiale alla distanza di soli 35 metri.

Una svolta si ebbe con la "palla Migné", dal nome dell'ufficiale francese Claude Etienne Minié che la ideò. La "palla" da tonda prese una forma ogivale con delle scanalature. La precisione di tiro venne migliorata notevolmente e il suo impatto con il bersaglio divenne devastante. Questo tipo di munizionamento fu impiegato nella Battaglia di Solferino e poi nella guerra di Secessione americana. 

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Con l’introduzione dei fucili a retrocarica e il nuovo munizionamento, cambiò radicalmente la tattica sul campo di battaglia. Non si procedeva più a passo di marcia, come ancora imponevano i “regolamenti”; il soldato per non essere facile bersaglio dei nuovi fucili pensò bene di disobbedire e di mettersi a correre. Se ne ebbe esempio nella guerra civile americana e in quella franco-prussiana del 1871. Poi l’avvento della mitragliatrice e dell’artiglieria a tiro rapido avrebbero cambiato di nuovo il modo di uccidersi, non prima che generali cinici e assassini di tutta Europa mandassero a morire milioni di giovani sulla base delle loro antiquate idiozie sull’attacco frontale. Fu in questo modo che la borghesia risolse il “problema sociale”. Una generazione dopo ripeté l’esperimento, e furono cinquanta milioni di morti. Non molti, ma abbastanza per riprendere un profittevole ciclo di accumulazione.


I sistemi elettronici e satellitari di comando e controllo del campo di battaglia sono un fatto degli ultimi decenni; l’impiego in formazione di macchine volanti e terrestri multiruolo a guida remota dirà, nel prossimo conflitto che l’infame borghesia ci regalerà per continuare a regnare, quanto lo sviluppo tecnologico reale in ambito bellico avrà saputo avvicinarsi alle iperboli della fantascienza.

(*) Bonaparte, giovane ufficiale d'artiglieria (sarà radiato una prima volta da tenente e poi reintegrato nei ranghi col grado di capitano; una seconda volta sarà radiato col grado di generale e poi reintegrato da Barras), aveva letto J.A.H. Guibert, Jean Du Teil e M. de Bourcet, cioè il Traité de tactique, L'usage de l'artillerie nouvelle e i Principes de la guerre de montagne (quest'ultimo gli servirà nella I campagna d'Italia contro il Piemonte). Si veda: Jean Lambert Colin, L'éducation militaire de Napoléon, Paris, Chapelot, 1900 (disponibile anche in edizione più recente).

3 commenti:

  1. gentilmente conosce un bel libro di storia militare da suggerire, fatto come si deve con i giusti agganci alle condizioni socio economiche ... grazie mille

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    1. con i giusti agganci alle condizioni socio economiche ma che riguardi la storia militare in generale? non me ne viene in mente nessuno al momento, mentre ce ne sono per le singole epoche. ad ogni modo provi, per la sola storia militare:
      La rivoluzione militare di Geoffrey Parker; se le piace la storia antica non c'è di meglio che il classico Gibbon e il Rostovcev, ma anche Aspetti sociali del IV secolo di Santo Mazzarino.
      Le cose della guerra (De rebus bellicis), di Anonimo latino, a cura di Andrea Giardina
      per il Medioevo una cosa tranquilla è il classico Henry Pirenne, più impegnativo, soprattutto per la mole, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II di Braudel, ecc.
      per il rinascimento c'è solo l'imbarazzo della scelta, e come segnalato Parker. Poi insuperate Le campagne di Napoleone di David G. Chandler.
      per l'epoca contemporanea la bibliografia è sterminata, ma appunto è dedicata a singoli periodi o guerre
      se le interessa qualcosa di più specifico resto a disposizione
      saluti

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  2. Se resterà qualcuno per raccontarlo.

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