giovedì 18 febbraio 2016

Una legge peculiare del modo di produzione capitalistico


Non c’è opera economica di Marx, ossia di critica dell’economia politica, dove non prenda per il culo Robert Malthus, purtroppo anche lui un acquario, essendo nato il 13 febbraio 1766. Questi scrisse un celebre librino (librone, né ho una copia in 16°) in cui trattava le questioni afferenti la cosiddetta sovrappopolazione (dico cosiddetta poiché non siamo una colonia di topi) “con le leggi eterne della natura, anziché con le leggi naturali puramente storiche della produzione capitalistica”, osservava Marx. Un po’ come si contestano le preferenze sessuali umane richiamandosi a presunti et eterni et normali et, et, et … rapporti di “natura”.

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Credo sia di grande interesse leggere uno dei due studi, sull’aumento delle aspettative di vita, pubblicati del Center for Strategic & International Studies, un think tank di Washington con legami col Pentagono e la CIA.

I padroni del mondo e i loro funzionari sono ben consapevoli che, specie nelle aeree metropolitane, la quota di popolazione più anziana è destinata ad aumentare e di molto. E ciò crea, in una società capitalistica, dei seri problemi sociali.

Anzitutto va fatta una premessa: posto che l’aspettativa di vita è uno degli indicatori più importanti per stabilire il grado di sviluppo raggiunto da una data formazione economico-sociale, è tuttavia pacifico che l’aumento di tale aspettativa non è uguale per tutte le classi sociali. Non è uguale in rapporto al reddito e in rapporto al tipo di lavoro svolto.

A titolo d’esempio: uno studio condotto dal Brookings Institution, pubblicato venerdì scorso, documenta come sia aumentata negli Usa la disparità della speranza di vita tra la popolazione lavoratrice in rapporto al reddito. Il rapporto, basato su un'analisi dei dati del Census Bureau e i dati di gestione della previdenza sociale, conclude che per gli uomini nati nel 1950 il divario nella speranza di vita tra il 10 per cento dei lavoratori dipendenti con reddito più alto e il 10 per cento con reddito più basso è più del doppio del divario esistente tra le stesse categorie di reddito nate nel 1920 (*).

La prima riflessione da fare è d’ordine economico. Il singolo capitalista, quando non è travisato da filantropo, è tutto dedito alla ricerca “scientifica” del massimo plusvalore estraibile dalla forza-lavoro acquistata. Perché mai dovrebbe sprecare tempo e denaro per risolvere i problemi che affliggono quei gruppi sociali – vecchi, bambini, handicappati, marginali di ogni tipo – incapaci di valorizzare il suo capitale?

Vale per il singolo capitalista, ma egli è soltanto capitale personificato: la sua anima è l’anima del capitale. Il capitale ha un unico impulso vitale, quello di valorizzarsi, di creare plusvalore. Che non significa semplicemente conservazione e riproduzione di capitale su scala allargata (trasformazione del plusvalore in capitale), caratteristica del modo di produzione capitalistico, ma riproduzione dell’insieme delle condizioni materiali e sociali, e dunque riproduzione dei rapporti capitalistici.

La riproduzione della forza-lavoro – scrive Marx –, che deve incessantemente incorporarsi al capitale come mezzo di valorizzazione, che non può staccarsi da esso e la cui servitù nei confronti del capitale viene solo nascosta dall’alternarsi del capitalista individuale a cui essa si vende, costituisce effettivamente un elemento della riproduzione dello stesso capitale. Accumulazione del capitale è quindi aumento del proletariato.

Ed infatti, in una società sedicente libera e democratica, in cui non sia consentita legalmente la schiavitù, la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi, e cioè bisognosi. È esattamente l’antico principio secondo cui la ricchezza non vale nulla se non c’è chi lavora per te. Ed è un principio essenziale che qualunque borghese – a partire dalla signora con la sua colf – ha inculcato bene in mente, per educazione e per interesse pratico, di classe.

Nelle condizioni più normali dell’accumulazione, cioè nelle fasi di ciclo espansive, il rapporto di dipendenza degli operai dal capitale riveste forme tollerabili, per il lavoratore salariato sono le più favorevoli, comode e liberali. È in tali condizioni che fiorisce la democrazia, la pace sociale, le politiche del welfare, e tutte quelle prelibatezze che il paradiso capitalista può offrire ai propri schiavi.

Scrive Marx: “Ma come il vestiario, l’alimentazione, il trattamento migliori e un maggiore peculio non aboliscono il rapporto di dipendenza e lo sfruttamento dello schiavo, così non aboliscono quello del salariato. Un aumento del prezzo del lavoro in seguito all’accumulazione del capitale significa effettivamente soltanto che il volume e il grosso peso della catena dorata che il salariato stesso si è ormai fucinato, consentono una tensione allentata”.

Gli economisti, i politici, i sociologi, insomma il solito marchettificio, nella loro totale ignoranza e completo fraintendimento dei fatti, interpretano i fenomeni dell’accumulazione nel senso che quando il ciclo si espande essi trovano che esistono troppo pochi operai salariati, e quando invece il ciclo si contrae e subentra la crisi eccepiscono che ce ne sono troppi.

“La legge della produzione capitalistica, che sta alla base della pretesa ‘legge naturale della popolazione’, si riduce semplicemente a questo: il rapporto fra capitale, accumulazione e saggio del salario non è altro che il rapporto fra il lavoro non retribuito trasformato in capitale e il lavoro addizionale richiesto dal movimento del capitale addizionale”.

In termini più semplici: il capitale addizionale non è capitale del capitalista se non nella forma di plusvalore estorto all’operaio. Più aumenta il capitale addizionale, più aumenta la richiesta di forza-lavoro, ossia la popolazione operaia. Tale legge però opera, come tutte le leggi, in modo dialettico.

Ad ogni modo, senza tirarla per le lunghe (questo è un post non un saggio organico sul tema), l’aumento del capitale costante e di quello variabile non procede di pari passo. La composizione del valore capitale subisce una progressiva mutazione. Con la crescente produttività del lavoro – dunque a seguito dello sviluppo tecnologico e dei perfezionamenti tecnici – non solo aumenta il volume dei mezzi di produzione consumati nella produzione, ma il valore di questi ultimi diminuisce a paragone del loro volume. Il loro valore aumenta dunque in assoluto, ma non in proporzione del loro volume.

“Con l’aumentare del capitale complessivo cresce, è vero, anche la sua parte costitutiva variabile ossia la forza-lavoro incorporatale, ma cresce in proporzione costantemente decrescente”.

Sia ben chiaro, a prevenire malintesi, se il progresso dell’accumulazione diminuisce la grandezza relativa della parte variabile del capitale (cioè degli operai), tale sviluppo non esclude affatto l’aumento della sua grandezza assoluta. Insomma, se il capitale variabile diminuisce in rapporto a quello costante, ciò non impedisce un suo impiego in una scala più grande.  Ciò effettivamente è avvenuto, grossomodo, fino agli anni Settanta del secolo scorso, e ancora e per poco nelle aree economiche di nuovo sviluppo capitalistico.

Con lo sviluppo della composizione tecnica del capitale, ossia con l’aumento della parte costante di esso e con la diminuzione di quella variabile (forza-lavoro), si rende necessaria “un’accumulazione del capitale complessivo accelerata in progressione crescente per assorbire un numero addizionale di operai di una certa grandezza o anche, a causa della costante metamorfosi del vecchio capitale, soltanto per occupare il numero già operante”.

Questa crescente accumulazione e centralizzazione si converte ancora in nuovi cambiamenti nella composizione del capitale o di nuovo in una diminuzione accelerata della sua parte variabile a paragone della costante. Questa diminuzione relativa della forza-lavoro, accelerata con l’aumentare del capitale complessivo e accelerata in misura maggiore del proprio aumento, appare dall’altra parte, viceversa, come un aumento assoluto della popolazione operaia costantemente più rapido di quella impiegata dai mezzi che le danno occupazione.

È invece l’accumulazione capitalistica che costantemente produce, precisamente in proporzione della propria energia e del proprio volume, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua ossia addizionale. Pertanto la popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione del capitale da essa stessa prodotta, i mezzi per render se stessa relativamente eccedente!

Scrive ancora Marx: “È questa una legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico, come di fatto ogni modo di produzione storico particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide. Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia”.

Tale aumento della popolazione lavoratrice in rapporto ai mezzi di produzione che possono impiegarla è funzionale al capitale stesso, e anzi diventa la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Scrive il Grande Vecchio:

“Il ciclo vitale caratteristico dell’industria moderna, la forma di un ciclo decennale di periodi di vivacità media, produzione con pressione massima, crisi e stagnazione, interrotto da piccole oscillazioni, si basa sulla costante formazione, sul maggiore o minore assorbimento e sulla nuova formazione dell’esercito industriale di riserva della sovrappopolazione. […] La forma di tutto il movimento dell’industria moderna nasce dunque dalla costante trasformazione di una parte della popolazione operaia in braccia disoccupate o occupate a metà. La superficialità dell’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espansione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi”.

Per quanto riguarda il movimento generale del salario, tutto sommato esso è regolato esclusivamente dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva (cioè della forza-lavoro disoccupata), e tale movimento corrisponde all’alternarsi dei periodi del ciclo industriale.

Non sono dunque i salari determinati dal movimento del numero assoluto della popolazione operaia, ma dalla mutevole proporzione in cui la classe operaia si scinde in esercito attivo e in esercito di riserva, dall’aumento e dalla diminuzione del volume relativo della sovrappopolazione, dal grado in cui questa viene ora assorbita ora di nuovo messa in libertà.

Tra parentesi vi è da osservare come lo straordinario sviluppo della produttività del lavoro permetta di utilizzare improduttivamente una parte sempre maggiore della forza-lavoro in lavori domestici e di servizio, quali camerieri e serve, e poi i ceti “ideologici”, politici, sbirri, giuristi, e infine poveri, vagabondi, delinquenti, eccetera.

Confermando in pieno la legge scoperta da Marx, tale straordinario sviluppo della produttività del lavoro, e dunque lo sviluppo tecnico e tecnologico, ha raggiunto un livello tale che per mettere in moto una data quantità di capitale variabile è necessario un capitale costante e dunque un volume dei mezzi di produzione consumati nella produzione di proporzioni sempre maggiori. Per i dettagli, vedi qui.


E ciò non è senza conseguenze, sia sul piano della crisi del modo di produzione capitalistico, e sia sul piano delle conseguenze sociali. Come scrivevo nel post precedente, siamo alla crisi storica del capitalismo, perché la materia sociale prodotta dal modo di produzione capitalistico ha raggiunto, nel dominio reale totale, la sua “massa critica”: ogni ulteriore espansione è insieme processo di esplosione/implosione, di massima diversificazione e di collasso autodistruttivo. Siamo inoltre alla una crisi generale della formazione sociale, perché la crisi del modo di produzione capitalistico investe tutta la formazione sociale borghese ....

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Nota bene: tutti i passi di Marx citati sono tratti dal 23° capitolo del I Libro de Il Capitale, per la critica dell’economia politica.

(*) Per i nati nel 1920, si registra una differenza di sei anni tra i redditi più alti e quelli più bassi. Per i nati nel 1950, la differenza ha raggiunto i 14 anni. Per le donne, il divario è cresciuto da 4,7 anni a 13 anni, quasi il triplo.

Nel complesso, l'aspettativa di vita per il 10 per cento dei salariati più poveri è migliorata di appena il 3 per cento per gli uomini nati nel 1950, rispetto ai nati nel 1920. Per il 10 per cento dei salariati con reddito più alto, l'aspettativa di vita è salita di circa il 28 per cento rispetto al 1920. L'aspettativa di vita per il 10 per cento più povero dei salariati maschi nati nel 1950 è aumentata di meno di un anno rispetto a quella dei salariati di sesso maschile nati 40 anni prima, ossia è passata da 72,9 a 73,6. Per il 10 per cento dei salariati a reddito più elevato, l'aspettativa di vita è balzato da 79,1 a 87,2.

Questo tipo di studi – che in Italia non si effettuano o non sono resi pubblici – gettano ulteriore luce sul catastrofico declino sulla condizione sociale della classe salariata americana. Studi recenti mostrano un forte aumento dei tassi di mortalità dei lavoratori bianchi sia per quanto riguarda i giovani e sia per gli individui di mezza età, principalmente a causa dell’uso di stupefacenti, dell’alcolismo e del suicidio, fenomeni tipici di una società fortemente diseguale e dove i valori fondamentali sono quelli del successo e del denaro. Inoltre altri studi recenti mostrano un’inversione di tendenza nel calo della mortalità infantile. Non è un mistero che cosa c'è dietro questo regresso sociale, ossia sul fatto che si sfrutti la crisi finanziaria da parte della stessa classe sociale che l’ha scatenata con l’obiettivo d’invalidare le conquiste sociali ottenute nel corso di più di un secolo di lotte dagli operai e dai lavoratori salariati.

7 commenti:

  1. Due domande:
    1)Si dice sempre che la CIA avesse previsto il crollo dell' URSS dal declino della aspettativa di vita dell' epoca brezneviana; quindi l' incremento della mortalita' "servile" che sembra emergere dai dati preliminari 2015 annuncerebbe il declino di quella nostra attuale ?
    2) Poiche' la "remunerazione" del capitale sta nel " pluslavoro" sottratto ai suoi salariati, l' attuale dinamica tecnologica che porta alla riduzione del "lavoro umano" sia in "numero" che in "peso" dovrebbe essere ugualmente catastrofica per questo tipo di societa'?

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    1. non so cosa sapesse la CIA a proposito dell'Urss. A suo tempo non mi hanno informato. Forse hanno informato Giuliano Ferrara.
      Non mi risulta un aumento significativo del tasso di mortalità in Urss, mi risulta invece un forte aumento di quel tasso dopo la caduta dell'Urss (e con ciò non voglio assolutamente esprimere alcuna considerazione di merito).
      L'aumento della mortalità in Italia per il 2015, se confermato, andrà indagato nelle sue motivazioni.
      Non so che cosa intenda Lei per "catastrofica", che cosa intendo io mi pare espresso con chiarezza e abbondanza. In genere parlo di crisi generale, di crisi storica, di tendenza. Altro non so.

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  2. Malthus aveva sbagliato la previsione che la popolazione si moltiplicasse in modo esponenziale.
    Ed è cero che il suo trattato porta evidentemente acqua al mulino dei proprietari terrieri del suo tempo. Detto questo, Marx non ha mai capito un cazzo di ecologia e non si può pretendere, dopotutto era un uomo del XIX secolo.
    Impatto ambientale, impronta ecologica, esaurimento delle risorse, difficoltà sempre maggiori di ottenimento delle stesse e così via: Marx non le poteva prevedere e ascrive la crescita della popolazione e le sue conseguenze al modo di produzione capitalistico - industriale dei suoi tempi.
    Non poteva prevedere gli antibiotici, il crollo della mortalità infantile, la rivoluzione del modo di coltivare (questa è la "vera" rivoluzione e non la previde nemmeno Malthus), la pervasività del petrolio rispetto al carbone.
    Sono queste cose che hanno portato all'esplosione demografica, più che il desiderio spasmodico dei proletari di usare i loro figli per sbarcare meglio il lunario.
    Questa cosa sta rientrando perché è logico che chi ha meno possibilità di accedere alle risorse (leggi medicine) crepa prima.
    Lo sviluppo inarrestabile del capitalismo ha portato benessere e alienazione, quasi allo stesso grado.
    Sia le previsioni di Malthus che quelle di Marx, non si sono avverate. La popolazione è esplosa, ma la metà dell'umanità è in grado di mangiare tre volte al giorno, grazie alla tecnologia delle colture ecc. ecc. A lungo andare questo sfruttamento intensivo comincia a presentare il conto.
    Sarebbe un errore credere che questa situazione potrebbe essere risolta con una semplice redistribuzione delle risorse. Con una popolazione così sviluppata, il saccheggio delle risorse sarebbe, se non maggiore, per lo meno uguale e non prolungabile all'infinito.
    L'errore di Marx è quello stesso che è alla base del capitalismo, cioè credere nel progresso infinito, che semplicemente in natura non esiste.
    Si pensa che verrà il comunismo o almeno una "buona" tecnologia a mettere tutto a posto.
    Il millenarismo lo butti fuori dalla porta e rientra dalla finestra.
    In questo purtroppo avrà ragione, alla fine, Malthus.
    Converrebbe studiare meglio cosa fanno i topi quando sono in un ambiente sovraffollato: più che altro per non rischiare di seguirne l'esempio.

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    1. Io penso, caro Uomo, che la differenza tra indovino e scienziato sia tra chi prevede e predice (il primo) e chi studia le leggi dei fenomeni (il secondo). Per quel che ne so (nel caso, per favore, mi si smentisca), Marx non ha mai parlato o creduto in un progresso infinito, ma ha spiegato, in modo insuperato e insuperabile, come funziona - scoprendone le leggi - il sistema economico e produttivo capitalistico partendo dalla base: la natura della "merce". E non è un caso che egli sia partito da lì, perché da come si produce, da come si consuma lavoro per produrle, da come si scambiano le merci si determinano e i rapporti sociali e i conseguenti disastri ambientali, eccetera.

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  3. Vabbè abbiamo capito...

    Solo una buona coscienza ecologica salverà il mondo..
    Come ,quando, e attraverso quali rapporti questa coscienza si svilupperà , non è dato sapere , e nemmeno indagare..
    Lo scrivente di cui sopra ha ragione, butti il millenarismo fuori dalla porta e questo ti rientra dalla finestra(sic)
    Nel frattempo credo comincerò a studiare il comportamento dei topi locali ,per poi compararlo con i topi nazionali, e poi europei e poi mondiali al fine di trarre utili indicazioni.

    caino

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  4. Una volta si diceva parlare per sentito dire, con internet si dovrebbe modificare in commentare per...

    L'errore di comodo di malthus che assolveva la sua classe da ogni responsabilità è messo chiaramente in evidenza da Marx.
    Il nostro pastore evidentemente non conosceva bene il suo gregge umano e lo considerava sullo stesso piano di quello animale.
    Per questo addossava la causa della povertà agli stessi poveri che troppo si riproducevano.
    Come se il mondo fosse un pascolo e l'umanità delle pecore. Le quali, a livello di un semplice rapporto naturale con l'ambiente, non si possono riprodurre in numero maggiore di quanta erba e germogli produca il loro territorio.
    Marx faceva notare che il numero di esseri che il mondo può sfamare è in relazione allo sviluppo delle forze produttive e la povertà o ricchezza siano conseguenze dell’organizzazione sociale della produzione.

    P. es l’uomo con le marcite aumenta l’erba, quindi anche le pecore e di conseguenza la possibilità di mettere al mondo più figli perché c’è + latte + formaggio + carne + più vestiti.

    Detto questo “l’errore di Marx” che lei lamenta non esiste, poiché non si tratta di redistribuzione delle risorse ma di diverso rapporto sociale nella sfera della produzione.


    Consiglio la lettura del post di Olympe


    domenica 21 giugno 2015
    La ricchezza su una montagna di cadaveri
    «C’è un solo uomo di troppo sulla Terra: il reverendo Malthus».

    Saluti, g



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  5. addendum

    ricchezza e povertà sono poi conseguenze della proprietà privata di marcite e pecore

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