mercoledì 6 gennaio 2016

Non è più tempo di caravelle e archibugi



Mi pare di avvertire, e si tratta di qualcosa di più mere sensazioni, un diffuso senso d’attesa e di ansia, di preoccupazione per ciò che potrà accadere nel corso di questo nuovo anno. Già in apertura, la caduta delle borse di Shangai e Shenzhen non ha fatto presagire nulla di buono. Il crollo dei prezzi delle azioni ha innanzitutto una ragione: i prezzi sono troppo alti senza essere collegati ai risultati delle aziende. Gli investitori hanno cominciato a vendere e ci vuole poco perché subentri il panico.

Se crollano le borse cinesi, precipita anche Hong Kong, quindi Tokyo e poi tutte le altre. La catena di sant’Antonio funziona così. Sullo sfondo si staglia la crisi economica mondiale, la crisi storica del modo di produzione capitalistico, la sempre più stridente e divaricante contraddizione tra processo di produzione e di valorizzazione.

La Cina, economia sedicente di mercato, lunedì ha sospeso le contrattazioni e ha acquistato azioni tramite istituzioni pubbliche finanziate dal Tesoro, mentre la Banca centrale ha immesso liquidità in forma di pronti contro termine. In questo modo ha bruciato oltre 200 miliardi di dollari di riserve negli ultimi quattro mesi.



Non si vendono solo azioni, ma anche moneta cinese. Mesi addietro la Banca centrale decise di svalutare lo yuan (la cui banda di oscillazione ufficiale è +/-2%) sostenendo che si era allontanato troppo da quello ritenuto valido dal mercato. Il mercato, soprattutto quello offshore, si fa beffe di queste rigidità paleo capitalistiche.

Se lo yuan s’è svalutato quasi del 7 per cento in un anno contro il dollaro, non va meglio per gli altri cosiddetti emergenti: il real brasiliano ha perso quasi la metà del suo valore, la rupia indonesiana e il bath thailandese circa un decimo, il ringgit malese quasi un quarto, la rupia indiana oltre il 5%. Il rublo russo, sappiamo, ha perso oltre un quinto del suo valore. Non parliamo poi dell’Argentina, repubblica di Weimar latinoamericana.

La svalutazione della moneta, come sappiamo bene noi italiani a riguardo della lira (con l’euro la svalutazione avviene principalmente comprimendo i salari e sfruttando forsennatamente il lavoro), fa molto comodo alle esportazioni; ma ci sono delle controindicazioni: si pagano più care le merci d’importazione e chi ha investito in quella moneta tende a venderla e a comprare divise più stabili o in apprezzamento. E ciò comporta inevitabilmente un calo degli investimenti esteri nel paese.

Se la Cina arranca e importa meno petrolio, i paesi che lo estraggono non se la passano meglio. Circolano meno petrodollari e l’economia mondiale già anemica va in coma. È ciò che ci aspetta nel 2016 e poi a seguire. C’è meno trippa e i gatti s’azzuffano per un nonnulla. Aumentano le tensioni internazionali, è conflitto senza esclusione di colpi, dallo scontro inter-religioso a quello antico per l’egemonia, il controllo del mare, eccetera. Con una differenza: non è più tempo di caravelle e archibugi.

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Non possiamo vietare ai vari Maduro, così come prima a Chavez, a Dilma Rousseff, così come prima a Lula, a Cristina Fernández Kirchner, così come prima a certi peronisti, eccetera, di definirsi di sinistra. Del resto che una frazione della borghesia o della parte alta delle classi medie sia di “sinistra” è un fatto storico pacifico. Per essere di sinistra e socialisti basta impegnarsi in qualche nazionalizzazione, programmi di assistenza per i poveri e spendere qualche frase retorica anti-imperialista. Né si poteva vietare ad altri nazionalisti e stalinisti latinoamericani di definirsi marxisti. E per quanto riguarda il proletariato e sottoproletariato, in conformità con la sua situazione economica, non ci si può aspettare che abbia una posizione politica autonoma.

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