martedì 6 maggio 2014

Attila e le badanti ucraine


A scuola, dapprima il maestro e poi il o la prof. di storia, ci raccontavano che le invasioni barbariche avvenivano grossomodo dal Friuli. Uffa, ancora con le invasioni barbariche, si dirà. Infatti, ci hanno rotto le scatole quasi ininterrottamente per oltre mezzo millennio, e poi dalla terza elementare per quasi un decennio. Ora, per fortuna, d’invasioni abbiamo quelle televisive.



Dire “dal Friuli” è generico, poiché c’è anche la Venezia Giulia, e sarebbe forse più esatto affermare che i “barbari” transitavano dalla Venezia Giulia. Tuttavia non complichiamoci troppo la vita con questioni toponomastiche, non è il caso di stabilire in questa sede se Gorizia è (solo) Friuli oppure (anche) Venezia Giulia. Del resto è noto che non solo la storia, ma anche la geografia è opinabile.

Conformiamoci con ciò che è a tutti noto, ossia che Gorizia è Friuli, morta lì. La città sorge alla confluenza delle due naturali vie di comunicazione tra oriente e occidente, le valli dei fiumi Isonzo e Vipacco. Se provieni da Julia Emona, ossia dall’attuale Lubiana, per attraversare i fiumi c’è bisogno di ponti, ed infatti punto cruciale fra l’est e la pianura friulana era la stazione stradale di Ponte Sonti, con il grande ponte sull’Isonzo che si trovava all’altezza dell’odierna località di Mainizza (a valle di Gorizia e a monte del Vipacco).

E da chi fu distrutto il ponte per la prima volta? Gli acquileiesi lo distrussero, e non per fermare i “barbari”, bensì per impedire l’avanzata del ciclopico Massimino il Trace, nel 238. Quante ne ha viste quel ponte! A partire dal 401 vi transitò Alarico con i Visigoti, mezzo secolo dopo Attila con la sua carovana, poi nel 490 Teodorico con gli Ostrogoti, quindi verso il 568 Alboino con i Longobardi che elessero Cividale a capitale del loro primo ducato.

E non è finita. Nel 610 gli Slavi del medio Danubio, sempre dal Vipacco, invasero insieme con gli Avari (accento grave sulla prima vocale, mi raccomando) il ducato longobardo dopo che avevano occupato i territori delle Alpi orientali lungo le valli della Drava e della Sava.

Poi vennero una decina d’invasioni da parte degli Ungari tra l’899 e il 951. Per certi aspetti, in Europa, tali invasioni ­– che tra l’altro minacciarono serissimamente Venezia – furono altrettanto devastanti di quelle più antiche e famose, soprattutto a danno del patrimonio letterario conservato nelle abazie da Amburgo a Bordeaux, non meno che nei monasteri italiani. Finalmente il 10 agosto del 955 Ottone di Sassonia liberò l’Europa da questo ricorrente flagello sterminando sulle rive del Lech 100mila uomini dell’esercito ungaro. È da quella data, se si osserva bene, che rinascono le produzioni e i traffici in Europa.

A scuola, di invasioni ungariche, quando va bene, si accenna semplicemente, e una ragione, secondo me, è nel fatto che il capitolo “barbariche” si chiude con i Longobardi nel trimestre scolastico precedente e poi vai con Carlo Magno. Naturalmente scherzo (ma non tanto). Il motivo sta nel fatto che le invasioni ungariche (arrivarono fino all’Italia meridionale e si spinsero ben all’interno della Francia e dell’odierna Germania), avevano un carattere diverso da quelle, per esempio, arabe o normanne, poiché puntavano non all’occupazione di territori ma solo alla razzia. Altro motivo sta nella davvero scarsa pubblicistica, anche specialistica, sull’argomento.

Non molto note sono anche le numerosissime incursioni turche in Italia, la prima nel 1472, sempre per la solita via del Vipacco. Solo una di tali incursioni seguirà un’altra strada, quella del Natisone, fino a Cividale, e fu quella guidata nel 1477 dall'albanese Iskender Beg (Giorgio Castriota). Nell’occasione i turchi superarono il Tagliamento e il Livenza arrivando fino al Piave (lo dico per certi interessati: fiume sacro alla patria italiana quanto alla Serenissima).

Questi turchi, oltrepassato l’Isonzo, si trovarono a devastare il Friuli per l’ultima volta nell’autunno del 1499, mettendolo davvero a ferro e fuoco e prendendo prigionieri donne e bambini (si stimano 25mila vittime fra morti e non più ritornati). Poi arrivò Napoleone, gli Asburgo, e, prima dei titini, dei rumeni e delle badanti ucraine, quei luoghi furono teatro di uno dei più massicci scontri bellici della storia.

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Napoleone aveva commentato che la linea dell’Isonzo era indifendibile, e Garibaldi lo definì un brutto confine, auspicando che presto venisse spostato di 150 chilometri, ad est, ovviamente. Quel confine non era costituito da un elemento forte, un grande fiume, una catena montuosa, ma da una formalità. La frontiera del 1866 sull’Isonzo – dopo che era fallito il tentativo di impadronirsi di Trieste – era una linea irrazionale e capricciosa, “un filo di ferro piantato a casaccio”, in realtà un confine tracciato apposta per essere debole, con gli austriaci che controllavano posizioni sovrastanti e tre grandi brecce naturali fra le Alpi Giulie: quella di Tarvisio che porta a Villaco (oggi nell’Austria meridionale), quella del Vipacco (ora chiamato Vipava, in Slovenia) e infine la costa tra Fiume e Trieste. L’Italia, di là delle questioni vagheggiate da quel fascista naturale di D’Annunzio, non poteva sentirsi sicura se non controllava quel territorio.

Che poteva mai interessare tutto ciò a un popolo di sudditi alienati di un nuovo regno messo su in fretta, dove dominava l’aristocrazia di corte, la proprietà fondiaria e le alte professioni, dove non c’era stata nessuna trasformazione in senso moderno del sistema politico e della cultura, dov’era mancato qualsiasi movimento, a parte il brigantaggio, che assomigliasse a una rivoluzione sociale e dei valori? I governi, come ebbe a scrivere Mazzini, erano caratterizzati per una “politica di espedienti, opportunismi, mezze verità, complotti, reticenze e compromessi parlamentari, caratteristici della vita corrotta delle nazioni in declino”. Per fortuna che oggi, nel XXI secolo, la situazione è cambiata.

L’occasione per mettere mano a quei confini, ad ogni modo, venne nel 1915. Il generale Luigi Cadorna, capo di SM dell’esercito italiano, comandante supremo in guerra fino al diciotto brumaio 1917, non era secondo ad alcuno per conoscenza del territorio dell’arco alpino. Come detto, il tratto di fronte di “competenza” da dove poteva venire un’invasione era quello del Vipacco, da Caporetto non era mai passato nessuno, perciò nel 1917 da quel lato lì se ne stava tranquillo. Solo la pioggia insistente di quell’ottobre lo convinse a rientrare al comando supremo di Udine da Vicenza, ove stava in villeggiatura con la moglie.


Ma di questo, un’altra volta, con sorpresa.

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