mercoledì 19 giugno 2013

I limiti politici del capitalismo


Ha destato un certo scalpore un documento di 16 pagine redatto dagli economisti (la crema degli ideologi al servizio del capitale) del gigante finanziario americano JP Morgan, i quali senza troppe circonlocuzioni dicono quello che la borghesia ha sempre pensato, ossia che la crisi non è dovuta solo a

limiti intrinseci di natura prettamente economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, e varie rigidità strutturali. Col tempo – dicono questi sinceri funzionari del capitale – è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica”.

E quali sarebbero questi limiti politici?

“I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea.”



Nel caso non fosse ancora chiaro, gli specialisti della JP Morgan precisano:

“I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.

Non vedo di che stupirsi per queste parole, a parte il fatto che anche certi paesi europei più settentrionali hanno conosciuto sistemi che proprio non oserei indicare come esempi di democrazia. Che cosa c’è di strano dunque, non è forse vero che tali costituzioni contengono contraddizioni stridenti con quelle che sono i principi salienti, non solo della concezione ultraliberista d’impronta americana, bensì del modo di produzione capitalistico comunque inteso e variamente interpretato socialmente?

Ripeto, almeno nella loro formulazione letterale, poiché nei fatti quelle costituzioni sono carta straccia. Prendiamo il primo comma dell’articolo 36 della costituzione nostrana, “la più bella del mondo”:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Se fosse effettivamente applicato questo dettato costituzionale nella realtà dei rapporti tra capitale e lavoro, verrebbe meno il pilastro su cui regge il capitalismo. Ed infatti tale principio non trova e non può trovare applicazione sostanziale poiché lo scopo fondamentale della produzione capitalistica è quello di produrre plusvalore.

Pertanto, in un sistema di produzione capitalistico, richiamare il diritto dell’operaio ad avere una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, è puro non senso, demagogia. Il lavoro dell’operaio non è altro che un mezzo per valorizzare il capitale. Se la retribuzione dell’operaio fosse realmente proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, cesserebbe il processo di valorizzazione del capitale e perciò stesso lo scopo del capitalista nella produzione stessa.

E poi, se anche tale "proporzionalità" fosse da intendersi in senso lato, secondo quale altro rapporto oggettivo verrebbe stabilita la retribuzione secondo quantità e qualità?

Succede nelle costituzioni borghesi lo stesso travisamento che troviamo nelle encicliche pretesche, laddove è detto che all’operaio deve essere corrisposta per il suo lavoro “la giusta mercede” (Rerum novarum). Ma per il capitalista il salario, ossia il prezzo pagato per utilizzare la forza-lavoro, è giustissimo, anzi, fin troppo elevato!

Lo scopo animatore del capitale, la creazione di plusvalore, è il pungolo e il contenuto assoluto dell’operare del capitalista. Perciò il suo obiettivo è necessariamente quello di pagare il prezzo d’acquisto della forza-lavoro più basso possibile, e, del pari, di intensificare il lavoro e di allungare quanto più possibile la giornata lavorativa, alias la famosa produttività, ossia il saggio di sfruttamento.

Laddove questa competitività media sociale del lavoro il capitale non riesca ad ottenerla con i normali mezzi della costrizione legale, provvede con altri mezzi e con altri artifici, per esempio con la svalutazione della moneta, ossia con la svalutazione del prezzo delle merci, quindi anzitutto dei salari.

In tal senso, il capitalista, come personificazione del capitale, appare come sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico, in ciò non meno di quanto avviene per l’operaio (con conseguenze pratiche assai diverse, ovviamente).

Pertanto, per riferirci solo a questo essenziale esempio, che cosa affermano di tanto strano, dal loro punto di vista e cioè dalla prospettiva dell’interesse dei capitalisti, questi “esperti”? Non è forse chiaro che la democrazia borghese quale comunemente fraintesa è solo un abbellimento della contesa tra capitale e lavoro? E allora, perché menare scandalo e stupore?

In fin dei conti questa falange della borghesia non chiede altro ai governi dei “paesi del sud” di rimettersi alle condizioni oggettive e naturali nelle quali deve procedere il capitalismo. Essi sanno bene che è lo Stato con la fiscalità generale a sanare in parte le disuguaglianze sociali più stridenti e ad assicurare in vari modi la sostenibilità del sistema sociale dal punto di vista di una democrazia. È quello che chiamiamo welfare.


E tuttavia, in un sistema capitalistico, in una democrazia borghese, questo tipo d’intervento statale, questa perequazione parziale della ricchezza a favore delle classi sociali più “svantaggiate”, nel tempo mostra la reale natura delle contraddizioni di questo sistema (non è necessario elencarle per l’ennesima volta). Ecco perché gli “esperti” prendono di mira le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, le tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo”.

2 commenti:

  1. cito dal post:
    "In fin dei conti questa falange della borghesia non chiede altro ai governi dei “paesi del sud” di rimettersi alle condizioni oggettive e naturali nelle quali deve procedere il capitalismo."
    "Ecco perché gli “esperti” prendono di mira le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, le tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo”."
    tutte questo non basta a spiegare il comportamento attuale del capitalismo. il modo di produzione capitalistico è entrato forse nella sua crisi definitiva, per cui invoca il fascismo. tutto come da copione. la miglior analisi sull'attuale crisi del capitale (decisiva?) è contenuta in un libro tedesco uscito l'anno scorso: "Die große Entwertung", di E. Lohoff e N. Trenkle, Unrast Verlag (www.unrast-verlag.de). non ho notizia di altrettanto precisa analisi e critica, nonostante in tutto il mondo si parli e sparli di "crisi del buoncapitalismo produttivo per colpa del cattivo capitalismo finanziario" ( e con ciò siamo serviti!). che i figli del POTERE che ci sta riducendo in mutande, ci indichino la via per uscirne?
    franco valdes piccolo proprietario di provincia

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    1. Caro Franco, riporti in traduzione qualche stralcio significativo o un sunto della tesi sostenuta nel libro: ha eccitato la mia curiosità. Da buon borghese, tronfio e compunto, benché sia facile all’entusiasmo, io ho in sospetto il principio di «crisi definitiva» del capitale; piú interessante è l’esigenza di fascismo in questa fase, sennonché avremmo da intenderci sul senso: un generico autoritarismo con limitazione dei diritti, o un fascismo esemplato storicamente, con forte vocazione allo Stamokap e allo Stato sociale?

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