martedì 29 gennaio 2013

Il contributo di Fabrizio Corona alla crescita del Pil



La segnalazione di un articolo da parte di un amico del blog mi offre lo spunto per una riflessione. L’articolo ha per argomento il “dibattito sugli effetti che le nuove tecnologie, robot, computer e software, avranno [e hanno] sull’occupazione nei prossimi decenni”. Scrive l’articolista:

Si continua a parlare, da destra ma anche da sinistra (vedi le teorie della decrescita e alcune tesi post operaiste), di “fine del lavoro”, ma resta il fatto che l’unica fonte di valore economico resta, innegabilmente, il lavoro erogato, in varie forme, dalle classi subalterne. 

E fin qui dice bene, anche se non precisa che non tutto il lavoro “erogato, in varie forme, dalle classi subalterne” produce valore, altrimenti anche uno come Fabrizio Corona è un lavoratore produttivo poiché incentiva la produzione di libri di diritto criminale. Poi continua:

…  a picchi di automazione elevatissimi, corrisponde oggi il lavoro manuale di centinaia di milioni di operai ridotti in condizioni di semischiavitù.

Molto bene anche qui, magari avrebbe potuto esplicitare meglio sul fatto che sebbene il capitalista introduca nuovo macchinario e attrezzatura per risparmiare lavoro, tuttavia ciò non si traduce nella diminuzione della giornata lavorativa, bensì nell’abbreviazione del tempo di lavoro necessario a produrre una determinata quantità di merce, ma pazienza. Segue quindi una frase tra parentesi:

se oggi Marx fosse vivo, direbbe che l’estrazione di plusvalore relativo ed assoluto sono forme complementari piuttosto che tappe diverse di un processo storico.

Manco per il cazzo, direbbe invece. Di questi tempi un po’ tutti lo tirano per le bretelle con degli spropositi che manco si sognerebbe. Vediamo di chiarirci un po’ le idee in proposito dando la parola a Marx:

Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa.

Da un certo punto di vista la differenza fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo sembra, in genere, illusoria. Il plusvalore relativo è assoluto perché comporta un prolungamento assoluto della giornata lavorativa al di là del tempo di lavoro necessario per l’esistenza dell’operaio stesso. Il plusvalore assoluto è relativo, perché comporta uno sviluppo della produttività del lavoro che permette di limitare il tempo di lavoro necessario ad una parte della giornata lavorativa.

Come si vede, l’estrazione di plusvalore relativo e assoluto sono due momenti che non si escludono ma stanno in rapporto tra loro, e tuttavia la loro differenza va ricercata nel processo storico dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, faccenda il cui dettaglio qui tralasciamo. Un fatto è però di fondamentale importanza: il plusvalore, comunque inteso, non può mai essere “forma complementare” del processo di produzione capitalistico, poiché esso rappresenta lo scopo determinante del modo di produzione capitalistico (*).

E allora per quale motivo si leggono tali e tante sciocchezze? Non credo si tratti di questo caso specifico, ma in genere si deve tener conto anzitutto di un qui pro quo non casuale, ossia nel far credere che il plusvalore sia prodotto da tutto il capitale, e non invece dalla sola sua parte variabile, vale a dire dal lavoro non pagato dell’operaio (ho già trattato l’argomento specificatamente QUI).

In base a questa tesi scorretta, i padroni hanno poi modo di sbraitare che l’introduzione di impianti e macchinari automatici nel processo produttivo riduce progressivamente la funzione dell’operaio nella produzione, il che dimostrerebbe che il capitalismo moderno limita sempre più lo sfruttamento della forza lavoro. In realtà, le macchine, per quanto automatiche, sono sempre capitale costante: il loro valore può solamente trasferirsi nei nuovi prodotti, ma non può produrre il minimo incremento.

Il fatto che i capitalisti impieghino macchinari automatici ed assumano un minor numero di operai, dimostra soltanto che si è ancor più intensificato lo sfruttamento della forza lavoro mediante l’estrazione di plusvalore relativo, ottenuta attraverso l’intensificazione dei ritmi e dei carichi di lavoro e l’uso delle tecnologie più avanzate.

L’impiego del macchinario, il suo miglioramento, aumenta il tempo di lavoro di cui si appropria il capitalista attraverso la condensazione del tempo di lavoro, giacché ogni frazione di tempo viene riempita con più lavoro. Mi spiego: crescendo l’intensità del lavoro, mediante l’impiego del macchinario, non solo aumenta la produttività (quindi la qualità) del lavoro, ma aumenta anche la quantità di lavoro in un dato intervallo di tempo. Come diceva quel “neoplatonico” di Marx, i pori del tempo vengono per così dire rimpiccioliti dalla compressione del lavoro.

Succede anche un altro fatto che non dovrebbe meravigliare e che implicherebbe molte altre considerazioni: l’impiego del macchinario, il suo miglioramento, nell’aumentare la produttività del lavoro, riduce il tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro, ossia l’equivalente del tempo di lavoro contenuto nei salari. Perciò a parità di durata della giornata lavorativa complessiva, risulta prolungato il tempo di pluslavoro.

Qui bisognerebbe introdurre il discorso sugli effetti che il macchinario e il suo miglioramento comportano nel processo produttivo dal lato della caduta tendenziale del saggio del profitto, e come ciò abbia una diretta influenza nella composizione organica del capitale, ma di questo ho già scritto altre volte. Invece accennerò solo al fatto che l’automazione ha aperto la strada al sistema dei turni, perciò il capitalista ha allargato fino al limite estremo la giornata lavorativa, accrescendo il tempo di pluslavoro a sua disposizione e, dunque, la quota di plusprodotto, vale a dire quella parte non retribuita di prodotto che rappresenta il plusvalore.

(*) La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore (Il Capitale, cap. 14). Motivo propulsore e scopo determinante del processo capitalistico di produzione è in primo luogo la maggior possibile autovalorizzazione del capitale, cioè la produzione di plusvalore più grande possibile, e quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza-lavoro da parte del capitalista (ibidem, cap. 11).

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