Ipotesi non fingo. Sarebbe bello l’incipit, e invece m’infilo proprio nel labirinto delle ipotesi poiché l’argomento di questo post, nientemeno che il futuro del capitalismo (sorridere, prego), è materia che non ha riguardo per le scienze esatte e poco anche per quelle approssimative. Quale attenuante ho dalla mia la frase kantiana secondo la quale è preferibile la più strampalata delle ipotesi per tentar di ragionare su qualcosa piuttosto che far quadrare il cerchio affidandosi all’ubbia religiosa, ossia all’antitesi pura e semplice della ragione.
La domanda da cui credo sia bene partire è pressappoco: il modo di produzione capitalistico rappresenta il traguardo definitivo cui è giunto lo sviluppo storico oppure ne rappresenta solo una tappa? Robetta. C’è chi sostiene che l’attuale crisi sia essenzialmente una crisi nel capitalismo e non del capitalismo. Con ciò s’intende che si tratta di una fase di ciclo superata la quale il capitalismo si ritroverà anzi rinnovato e rafforzato. Finora è successo proprio questo.
Sappiamo che il capitalismo, al pari di qualsiasi altro modo di produzione, ha un suo particolare carattere sociale definito rispetto alle condizioni di lavoro e di distribuzione. In altri termini i rapporti sociali di produzione capitalistici implicano che gli operai entrino in rapporto con i possessori delle condizioni di lavoro e fra loro stessi come venditori della propria particolare merce, ossia la loro forza-lavoro; la produzione del plusvalore, che nel capitalismo assume la forma storica particolare di profitto, resta come scopo diretto e motivo determinante della produzione.
Pertanto la domanda successiva riguarda anzitutto questi due “requisiti”: il sistema riuscirà ancora a garantire un’adeguata valorizzazione del capitale e la riproducibilità della forza-lavoro senza creare tensioni esplosive, cioè in definitiva riuscirà a mantenere entro certi livelli il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione? Inoltre, riuscirà il capitalismo nella sua fase imperialistica a non mandarci tutti arrosto?
La prima questione riguarda le difficoltà crescenti del processo di accumulazione, fenomeno fondamentale della crisi che spinge il capitale a ritirarsi sempre più dalla produzione concentrandosi nella circolazione, non ultimo a causa della caduta tendenziale del saggio di profitto (la legge marxiana opera con la stessa oggettività di una legge di natura), potenziando al massimo grado il gioco alla roulette speculativa di cui finora abbiamo sperimentato solo in minima parte la sua distruttività.
Inoltre, detto alla buona, le conoscenze scientifiche ormai tendono ad aumentare enormemente mentre l’accumulazione del capitale si svolge a ritmi assai più lenti e tale aspetto rinvia poi, tra l’altro, alla già accennata caduta tendenziale del saggio di profitto così come al problema della disoccupazione. Anche sul rapporto tra lavoro vivo e quello morto Marx ha scritto pagine definitive. Qui sarebbe necessaria una digressione sull’impatto fondamentale che sta avendo da un trentennio l’introduzione dell’elettronica e delle nano tecnologie nei processi produttivi e lavorativi, ma sorvolo.
E questo ci porta dritti alla seconda questione, la quale riguarda il contrasto sempre più stringente tra sviluppo materiale della produzione, condizioni di lavoro e forme sociali di distribuzione (la crescente pauperizzazione, anche in questo Marx ha “azzeccato” pienamente). Ci sarebbe poi da dire sulle problematiche ecologiche che vengono a porsi in modo sempre più drammatico, le crescenti tensioni internazionali per l’approvvigionamento e il controllo delle materie prime (sono sempre più in gioco gli equilibri geostrategici e la seria minaccia di un conflitto armato dagli esiti imprevedibili) e il disfacimento delle forme tradizionali della rappresentanza politica (l’esperienza storica ci dice quantomeno da che parte stiano in tali frangenti i “moderati”).
Si tratta, come tutti sappiamo, di questioni decisive della nostra epoca e che per la loro complessità e difficoltà non hanno precedenti. Infatti, a togliere le castagne dal fuoco, questa volta non potrà essere invocato l’intervento statale di tipo keynesiano quale volano della ripresa economica, anche se tale intervento c’è stato effettivamente sia in Europa e sia in America ma solo per mettere le pezze al culo alle banche. I neoliberisti affermano essere questo un intervento non più sostenibile poiché finisce per aggravare ulteriormente la crisi del debito che poi richiama le loro demenziali politiche fiscali di riequilibrio e l’inevitabile depressione come conseguenza (anche su questo punto ho scritto altre volte).
Pertanto c’è chiedersi come il capitalismo possa superare ancora una volta la crisi (con quali costi l’abbiamo visto negli ultimi due secoli) e se è possibile immaginare un nuovo ciclo espansivo. Penso invece del tutto probabile se non certo, come ripeto da anni, che la crisi si stia avvitando su se stessa e che la catastrofe finanziaria sia a un passo mentre la produzione crolla e le tensioni internazionali aumentano. Questa non è solo una sensazione, lo confermano i dati economici e le notizie che quotidianamente riceviamo. Perciò non siamo in presenza di una classica crisi nel capitalismo, a una tappa del suo contraddittorio sviluppo, ma a una crisi storica profonda ed estesa del modo di produzione capitalistico i cui limiti ormai sono manifesti e i rischi impliciti.
La domanda, a mio avviso, non è quindi se il capitalismo si salverà, ma se dalle sue macerie ne usciremo vivi e in quali condizioni e prospettive. Ed è a questo punto che entra in gioco l’attività sociale degli uomini, dalla quale dipende il concretarsi di una possibilità piuttosto che un’altra. Solo il marxismo, la teoria scientifica del comunismo, può ispirare l’umanità sfruttata e sopravvivente alla lotta per la giustizia sociale e un futuro migliore. Un futuro dove non è più l’economia a decidere della vita, di cosa, quanto e come produrre, dove il lavoro non è più visto come un costo ma come una risorsa, dove il disprezzo per l’uomo non si appalesi nel disprezzo per le masse lavoratrici (*).
Tuttavia bisogna anche considerare che il marxismo, nella versione del Novecento e ad opera della propaganda borghese di destra e di "sinistra", ha subito una sconfitta che non sarà né semplice né breve rintuzzare. Però bisogna dire che il capitalismo e i suoi apologeti ci stanno dando una grossa mano.
(*) La legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura esprime dunque in realtà solo il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata. Non può essere diversamente in un modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale esista per i bisogni di sviluppo dell’operaio. Come l’uomo è dominato nella religione dall’opera della propria testa, così nella produzione capitalistica egli è dominato dall’opera della propria mano (Marx, Libro I, cap. 23-2).