martedì 16 aprile 2024

Una violenza strutturale

 

La più grande rapina di sempre. A confronto lo scandalo della Banca romana (1892) e poi la cosiddetta Tangentopoli (1992) sono degli episodi di microcriminalità. Si può dire che Tangentopoli abbia favorito, almeno sul piano ideologico, la grande rapina, tutt’ora in corso, e che consiste nel saccheggio del patrimonio pubblico in nome di una razionalità identificata con la razionalità del profitto privato.

I nomi dei principali protagonisti politici di questa rapina si conoscono, ma non sono mai stati indagati e manco ancora perseguiti. Il ruolo dei grandi media è stato e continua ad essere essenziale nell’intossicare l’opinione pubblica, omettendo la realtà del programma di distruzione delle strutture pubbliche, secondo una logica strettamente economica, basata sulla concorrenza e apportatrice di efficienza, contro la logica sociale soggetta alla regola dell’equità (*).

Si tratta di un programma politico di azione, conforme alla descrizione “teorica”, che mira a creare le condizioni per la realizzazione dell’utopia neoliberista di un mercato puro. Una ideologia forte e difficile da combattere perché ha dalla sua parte tutte le forze di un mondo di potere e di interessate relazioni (azionisti, operatori finanziari, industriali), che orienta le scelte economiche, che deregolamenta la sfera finanziaria e garantisce una mobilità dei capitali senza precedenti.

Le stesse aziende sono poste sotto la minaccia permanente del fallimento se non si adattano sempre più rapidamente alle richieste del “mercato”. Perdere “la fiducia dei mercati “, è, allo stesso tempo, perdere il sostegno degli azionisti che, ansiosi di ottenere redditività a breve termine, impongono la propria volontà in termini di impiego, salario e (mancate) tutele della forza-lavoro.

Si instaura così il regno assoluto della flessibilità, con assunzioni con contratti a tempo determinato o interinali, quindi nelle tecniche di assoggettamento razionale della forza- lavoro a tutti i livelli aziendali: concorrenza tra filiali, tra team, tra individui, attraverso la fissazione di obiettivi legati alla retribuzione; colloqui di valutazione individuali, carriere individualizzate, valutazione permanente, incrementi retributivi personalizzati o concessione di premi basati sulle competenze e sul merito individuale; strategie di “responsabilità” tendenti a garantire l’autosfruttamento sia di alcuni dirigenti, ritenuti responsabili delle vendite, dei prodotti, della filiale, del negozio, sia ovviamente dei semplici dipendenti sottoposti a forte dipendenza gerarchica, a forme di “autocontrollo” e di “coinvolgimento” aziendale secondo tecniche di “gestione partecipativa ”.

Marx l’aveva messo in chiaro: si sviluppa una classe lavoratrice che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di questo modo di produzione, che altro non è che l’istituzione pratica di un mondo darwiniano della lotta di tutti contro tutti, a tutti i livelli della gerarchia.

Un sistema basato sull’insicurezza, la sofferenza e lo stress, che fungono da molla per l’adesione al compito e all’impresa. Questa strategia non potrebbe certamente riuscire in modo così efficace se non trovasse la complicità di tutti i livelli della gerarchia, ovviamente anche ai livelli più alti, in particolare tra i dirigenti di un esercito di riserva di lavoro docile alla precarietà e alla minaccia permanente di disoccupazione.

Il fondamento ultimo di tutto questo ordine economico posto sotto il segno illusorio della libertà, è la violenza della minaccia di licenziamento e della perdita dei mezzi di sostentamento che essa implica. Dunque, la violenza strutturale di quelli che chiamiamo contratti di lavoro, ossia una pletora di contratti senza reali tutele che possono togliere in qualsiasi momento ogni garanzia temporale.

Per uscire da questo sistema infernale, dai giochi matematici di questi cinici dogmatici, da questa violenza strutturale che si accumula e ci sovrasta, la strada delle riforme politiche si rivela impraticabile. I partiti politici, anche quelli apparentemente più critici, che non santificano il potere dei mercati in nome dell’efficienza economica, propugnano un patriottismo vago e autarchico, fuori dal tempo e screditato in anticipo, che non tiene conto dei rapporti di forza internazionali e delle leggi naturali dell’economia capitalistica, della quale a ogni modo non hanno intenzione di mettere in discussione i fondamenti: a loro volta il capitalismo vogliono riformarlo!

(*) Un esempio attuale è dato dalla fine delle cosiddette “tutele” per quanto riguarda le forniture di energia, non solo quella domestica. Famiglie e aziende si trovano a pagare bollette tra le più care – se non le più care in assoluto – in Europa. E da chi siamo costretti? Da “fornitori” che in realtà si accontentano di comprare dall’Enel e dall’Eni, ossia speculatori sui “mercati all’ingrosso” degli elettroni e del gas. Miliardi di utili che vanno nelle tasche dei più ricchi, di coloro che viaggiano con costosissimi fuoristrada mentre le loro domestiche pagano sempre più cara le bollette del gas e della luce. Bisognava essere stupidi per non capire il gioco di questi “cartelli” dell’energia. Ma ancora milioni di stupidi andranno a votare e attenderanno l’esito del voto davanti agli schermi televisivi in una suspense insopportabile.

lunedì 15 aprile 2024

A bassa voce

 

Sul Sole 24ore di ieri, a tutta p. 11 con richiamo in prima, si può leggere un reportage da Mosca della simpatica (davvero!) Antonella Scott. La quale ci regala uno scoop: «In sintesi, [in Russia] c’è chi vive meglio e chi vive peggio». Chi l’avrebbe mai sospettata una cosa del genere senza averci messo piede?

Per chi viene dal mondo “ostile”, «sulle prime fa caso ai segni più evidenti del cambiamento iniziato due anni fa: l’assenza di turisti americani ed europei, l’inutilità delle propria carta di credit». Insomma, scopre che l’Occidente è in guerra con la Russia.

«I turisti sono diminuiti, ma ci sono. Cinesi, indiani, sudamericani, kazaki, ora anche iraniani. [...] Vengono invece dalla provincia i gruppetti di signore raccolte attorno a una guida, o le famiglie con bambini [...]».

Ma come se la passa la gente locale dopo due anni di embargo e di guerra? Scrive Antonella: «Una frase ricorre molto spesso nelle conversazioni avute a Mosca, dove ormai per prudenza si abbassa comunque la voce: “Non sono mai stati così bene”».

Eh, non sono mai stati così bene, però lo dicono a bassa voce: il nemico li ascolta. Il merito, scrive Antonella, lo danno a Putin: il despota che non li lascia votare liberamente, come invece accade da noi, nel mondo libero.

Mi chiedo, ma se stanno così bene, perché i ricchi russi vogliono venire tutti in occidente? Perché non si godono i loro yacht nelle fresche acque del Baltico, perché attraccare a Malta o Portofino quando hai a disposizione Sachalin? Perché comprarsi una villa tra le tetre colline toscane invece di farsene una nella amena taiga russa?

Antonella queste domande non se le pone, non almeno nel suo reportage: «”Gran parte del consenso per il presidente si gioca sul tenore di vita”, conferma un osservatore occidentale, spiegando come non sia corretto parlare per la Russia di “economia di guerra”. [...] un’economia di guerra è quella di un Paese completamente isolato, in cui smetti di produrre tazzine e fai solo fucili».

E perché no? La risposta c’è: «Putin non potrebbe permetterselo: scardinare interessi consolidati e produzioni civili sarebbe ormai troppo complicato». Altrimenti sarebbero solo cannoni e niente burro. E invece, prende atto Antonella, si è raggiunta «Una maggiore “giustizia sociale” [chissà perché lo mette tra virgolette] che porta a compimento solo ora la stabilizzazione dell’economia avviata da Putin nel lontano 2000».

Forse Antonella non ricorda a quale grado di sottosviluppo e di anarchia era caduta la Russia negli anni Novanta. Tuttavia riporta la voce di Denis Volkov, sociologo del Centro indipendente Levada, che ha scritto un articolo per Forbes: «indicizzazione dei salari e pensioni, sussidi sociali, pagamenti ai militari e alle loro famiglie, commesse alle imprese del comparto militare. Misure cruciali per le fasce più povere della popolazione [...] mentre le classi un tempo “privilegiate”, più vicine al tenore di vita occidentale e ora colpite da sanzioni, vengono lasciate a sé stesse».

Forse quell’87% dei voti andati al bieco dittatore, quel Putin nipote – dicono – del cuoco di Lenin e Stalin, dipende anche da questa politica economica demagogica? «Valkov aggiunge che per la prima volta dagli anni 90 i sondaggi registrano la percezione di un miglioramento della propria posizione finanziaria, e un netto calo in due anni – dal 45 al 25% – di chi ritiene che il benessere materiale in Russia non sia distribuito in modo equo».

Chissà quali sarebbero le percentuali in Italia rispondendo alla stessa domanda.

giovedì 11 aprile 2024

Il pendolo di Clausewitz

 

Nuove e imponenti spese per armamenti ed eserciti. Qualcuno le giustifica dicendo che il pendolo si è spostato dal “dividendo della pace” al debito di guerra. Vero, ma perché?

Putin il cattivo, il mostro? Possiamo negare che gli hanno portato la Nato sull’uscio di casa, sabotato in ogni modo il gasdotto Nord stream2, fomentato l’Est Europa contro ... Oppure la Cina? Gli Stati Uniti riconoscevano una sola Cina, ora di fatto non più. Sanno bene che Taiwan è cinese quanto lo sono l’Elba o le Egadi per l’Italia, le Baleari per la Spagna, le Òrcadi per la Scozia, eccetera.

A proprio fondamento la guerra ha sempre gli stessi motivi: la competizione economica e geostrategica. Una guerra che non potrà essere solo convenzionale, sia pure ad “alta intensità”, come pronostica (e auspica) Joseph Borrel. No, di convenzionale non c’è più nulla a questo mondo, a parte l’idiozia.

La stabilità strategica in Europa, ha affermato il vice segretario di Stato americano Kurt Campbell, è “la nostra missione più importante, storicamente”. Non è vero: la missione più importante degli Stati Uniti, storicamente dopo l’Inghilterra, è stata quella di dividere l’Europa, nello specifico storico dividerla dalla Russia.

È lo stesso Campbell che minaccia la Cina per le sue relazioni con Mosca, perché ciò è “antitetico agli interessi” americani. Washington vede solo i propri interessi e nega quelli degli altri. Se non fosse drammatico sarebbe comico. Cambell ha chiesto di includere il Giappone nell’alleanza Australia-Regno Unito-Stati Uniti (AUKUS), poiché ciò potrebbe essere la chiave per vincere una guerra con la Cina su Taiwan.

Vogliono aumentare le spese militari perché le tensioni stanno andando fuori controllo, e al fondo c’è il fatto che la Cina è un’economia da 17,5 trilioni di dollari che è il più grande o il secondo partner commerciale per la maggior parte delle principali economie del mondo. L’88% del commercio mondiale e il 60% dei depositi bancari sono denominati in dollari statunitensi, anche se nel 2022 gli Stati Uniti rappresentavano solo il 15% della produzione economica globale e l’8% delle esportazioni globali. Dunque una delle prossime mosse di Washington sarà quella di bloccare l’accesso cinese al dollaro statunitense. La classica goccia che farà traboccare il vaso.

Quanto ai casi nostri, Washington, Parigi, Londra e Berlino non vogliono perdere la faccia in Ucraina, checché ne dica Trump. È ovvio che, al momento opportuno, avranno bisogno di un “incidente”, di un casus belli. Il resto lo faranno, come sempre, i media. Dopotutto nessuno ci punta una pistola alla tempia per costringerci a comprare un prodotto di cui non abbiamo bisogno. Ma questo è un grosso errore crederlo.

Non solo funziona statisticamente, ma esiste un’enorme asimmetria tra i mezzi e le conoscenze delle agenzie pubblicitarie riguardo al funzionamento del cervello umano e la nostra ignoranza sulle tecniche di manipolazione e sui meccanismi universali del pensiero e del comportamento umano (nel 2002, lo psicologo ed economista israelo-americano Daniel Kahneman ha ricevuto il premio Nobel per l’economia per aver confutato l’idea che gli individui facciano scelte razionali per il proprio bene). Ciò che vale per il marketing, vale per la politica, la guerra e tutto il resto.

Non serve innestarci nessun chip sottopelle. La risonanza magnetica funzionale (MFRI) ha reso possibile misurare con precisione il flusso sanguigno a diverse aree del cervello. La Sony, per esempio, ha effettuato una campagna di misurazione dell’imaging cerebrale per progettare un nuovo modello di newsletter, in grado di raddoppiare la percentuale di clic da un giorno all’altro. I cosiddetti esperimenti di “eye-tracking” consistono nel seguire il percorso inconscio dello sguardo sottoposto a stimoli, permettono di analizzarne l’efficacia leggendo annunci pubblicitari in una metropolitana o su un sito web.

È sufficiente guardare le immagini e soprattutto ascoltare il sonoro del discorso di Mussolini il 10 giugno 1940 per farsi un’idea del grado di manipolazione delle masse. E da allora ne sono successe di cose. Il Covid-19 è stata l’occasione per studiare ancora meglio gli effetti delle tecniche di persuasione basate sul sentimento di paura, è stato un banco di prova gigantesco di cui non sono pubblici i risultati. Semplicemente non se ne parla più, quel fenomeno è stato rimosso nell’opinione pubblica ed il resto è diventato segreto di Stato.

La guerra psicologica per mobilitare l’opinione pubblica verso determinati obiettivi ha oggi assunto una nuova forma legata al progresso tecnologico. Le operazioni psicologiche o psyops sono fatto quotidiano. Si chiama guerra preventiva. Non si tratta più di giustificare la punizione di chi detiene la “pistola fumante”, cioè l’arma del delitto appena commesso. È necessario giustificare la punizione di un potenziale criminale che intende acquisire una pistola.

Stesso discorso quando si vuole anestetizzare l’opinione pubblica, per esempio per garantire che l’opinione pubblica non disapprovi le azioni intraprese contro il nemico: si dice che si sta facendo un’indagine su quanto accaduto, facendo le più variegate ipotesi ma in realtà ben sapendo che cosa è effettivamente accaduto. Ciò per evitare una simpatia istintiva per le vittime dei bombardamenti. Dopo un paio di settimane, semmai si presentano delle scuse formali per l’“errore” o il “danno collaterale”, ma ormai ciò che è accaduto non interessa quasi più a nessuno.

Durante la guerra contro la Serbia, la dottrina della Nato, volta a generare la massima frustrazione tra la popolazione civile, prevedeva bombardamenti aerei strategici che distrussero soprattutto le installazioni civili e industriali, lasciando intatta la maggior parte del potenziale militare.

La Nato ha deliberatamente cercato l’effetto Dresda, cioè l’esaurimento morale di un popolo che vede bombardati i suoi edifici, i suoi ponti, i suoi ospedali, le sue centrali elettriche, le sue fabbriche, le sue centrali telefoniche, la sua televisione. Se ti svegli la mattina e in casa tua non c’è elettricità, né gas, il ponte che prendi per andare al lavoro è distrutto, inizierai a chiederti: “Ehi, cosa significa? Per quanto tempo dovrò sopportare tutto questo?”.

L’effetto Dresda: è la stessa cosa che hanno fatto gli ucraini nel Donbass e che ora stanno facendo i russi in Ucraina. Ciò che non ci viene raccontato o che filtra appena, è che la popolazione civile è disperata per la rovina del Paese e i militari scoraggiati dalla supremazia delle forze russe, nonché dalle diserzioni.

Un aneddoto: un aereo C 130 Hercules, denominato Commando Solo, era equipaggiato con una stazione che trasmetteva programmi radiofonici e televisivi in lingua serba. Questo studio volante trasmetteva giorno e notte alla Serbia immagini compatibili con il sistema televisivo jugoslavo e capaci di sostituire i programmi ufficiali. Quasi tutto ciò che sappiamo in Occidente di come è stata condotta quella guerra è falso o manipolato nell’essenziale. E ciò che vale per la Serbia vale per tutti gli altri conflitti.

Per quanto riguarda l’invasione irachena del Kuwait, nota è invece la vicenda dell’incubatrice: una giovane donna testimoniò di aver visto soldati iracheni irrompere in un ospedale del Kuwait e uccidere bambini prematuri nelle incubatrici. Questa testimonianza aveva commosso l’opinione pubblica internazionale ed è stata utilizzata per scopi di propaganda. Si trattava però di una falsa testimonianza e la giovane era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington.

La propaganda di guerra americana si basa su una struttura complessa che opera in reti, civili e militari, pubbliche e private, ideologiche e industriali. Le agenzie federali, le agenzie di comunicazione private, la lobby militare-industriale, i gruppi di pressione, i think tank, l’industria dell’intrattenimento di Hollywood, agiscono in sinergia per influenzare l’opinione americana e straniera.

Naturalmente si tratta di reti estese anche nei Paesi occidentali (con propaggini in quelli ritenuti ostili), com’è constatabile semplicemente aprendo un giornale o accendendo un televisore. Ne siamo così assuefatti che si fa fatica ad accorgersene. La “metapropaganda” è l’arte di denunciare pubblicamente e ad alta voce la presunta propaganda del proprio avversario al fine di negare ogni credibilità alle sue dichiarazioni.

Le strutture di “influenza” militare fanno parte degli organi ufficiali di disinformazione. L’Office of Strategic Influence (OSI) era responsabile di “fornire dati potenzialmente falsi” ai leader mondiali, ai media e al pubblico. È stato formalmente rimosso nel 2002 per aver fatto sapere che era disposto a mentire al suo popolo e ai suoi alleati. Ma è stato subito sostituito dall’Office of Global Communication (OGC), responsabile della intossicazione informativa. Questo ufficio ha anche la missione di screditare qualsiasi informazione proveniente da un paese ostile, sistematicamente accusato di sviluppare un apparato per diffondere menzogne (Apparatus of Lies). Anche i gruppi complottisti sono favoriti, lo scopo è quello di creare ridondanza e confusione.

Quanto agli embarghi economici, l’Occidente è specialista: prendono in ostaggio un intero popolo e ne organizzano le carenze, privando i più indigenti di beni di prima necessità, come generi alimentari e medicinali. L’embargo contro l’Iraq ha causato più morti della bomba di Hiroshima, tenendo conto delle rispettive conseguenze mediche.

Il vero messaggio di questa campagna non è che il Big Mac sia “senza tempo”, ma che noi siamo sempre considerati gli idioti che gli inserzionisti abuseranno, manipoleranno e ridicolizzeranno spingendoci a seguire le loro orribili mode.

"La soluzione di tutta questa merda"

 

Il modo di produzione capitalistico ha cominciato a diventare dominante da un paio di secoli (un battito di ciglia nella storia del genere umano) ed è stato dato per spacciato più volte e ciò nonostante appare vivo e trionfante. Nonostante le sue ricorrenti crisi, alcune davvero devastanti, perché finora non è collassato? Marx, se fosse vissuto più a lungo, questa domanda se la sarebbe posta?

Marx non usa mai nei suoi scritti la parola “capitalismo”. Non nel Manifesto, né in Per la critica dell’economia politica, né nei tre libri de Il Capitale e nemmeno nella Critica al programma di Gotha, eccetera. Né mai si definirà “anticapitalista”. Fatto singolare, vero? Ma solo apparentemente.

Marx preferisce la locuzione “modo di produzione capitalistico”, specie quando fa riferimento alle sue “leggi”, che sono diventate tanto più “pure” quanto più il modo di produzione capitalistico si è sviluppato e quanto più completamente si è sbarazzato delle contaminazioni e complicazioni dei residui stadi economici precedenti [*].

Marx elaborò la parte fondamentale della sua critica dell’economia politica attorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, e pubblicò la sua opera più importante nel 1867. Allora il capitalismo era solo all’inizio della sua massima espansione e sviluppo, come ci ricorda Hobsbawm. Negli anni seguenti Marx dovette occuparsi dell’Associazione internazionale dei lavoratori e in generale della lotta politica, quindi dei suoi ricorrenti malanni fisici e dei suoi affanni familiari.

Dunque, Marx non si occupò del “collasso” del capitalismo, non solo perché sopraggiunse prematura la sua morte nel 1883, ma perché del modo di produzione borghese aveva messo alla luce il suo principale arcano, le conseguenti tendenze e contraddizioni, e pertanto bastava. Non era un profeta, ma un uomo di scienza.

L’essenza del capitalismo si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e dunque il capitalismo dovrebbe tendere verso una sempre maggiore privatizzazione della produzione, con sempre più mercati e sempre meno intervento statale. Marx sosteneva che la privatizzazione di tutte le condizioni per la riproduzione del capitale rappresenti un grado più elevato del suo sviluppo: “La rinuncia ai lavori pubblici da parte dello Stato e il loro passaggio nell’ambito dei lavori intrapresi in proprio dal capitale, è un indice del grado in cui la comunità reale si è costituita sotto forma del capitale” (MEOC, XXIX, p. 464).

Lo sviluppo del capitalismo presuppone l’estensione dei campi di redditività, come l’investimento nei servizi sociali, dalla sanità all’istruzione, quindi in tutti i settori spesso attribuiti allo Stato: «Il capitale raggiunge il suo massimo sviluppo quando le condizioni generali del processo sociale di produzione vengono istituite non ricorrendo al prelievo del reddito sociale, alle imposte dello Stato [...] bensì al capitale in quanto capitale» (Ibid., pp. 465- 66) [**].

Queste cose Marx le scriveva nei Grundrisse negli anni Cinquanta. Quanto a “visione” non era secondo a nessuno. A sentire oggi le sue parole sembra uno degli strenui fautori dell’iper-liberismo, ma in realtà Marx delineava il processo storico del capitale nella sua determinazione ineluttabilmente più avanzata.

Socializzandosi, il capitale si trasforma qualitativamente. La competizione produce il suo opposto, la concentrazione. La tendenza principale nella storia del capitalismo andrebbe dalla libera concorrenza, dal mercato dei produttori privati al monopolio e infine al capitalismo di Stato, forma di transizione verso il socialismo. Si dirà: predomina oggi il capitale, specie nella sua forma finanziaria, non la “politica”, ossia lo Stato. Apparentemente: meno Stato e più mercato è solo una balla. Il controllo degli istituti statuali è fondamentale sia nel processo di accumulazione e sia nell’organizzazione sociale. Cina, Usa, Russia e non meno le monarchie del petrolio lo stanno mettendo in chiaro.

Lungi dal realizzare la sua essenza, il capitale la demolisce attualizzandola: «Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico, nell’ambito del modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da sé stessa, che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata» (Il Capitale, III, cap. 27).

Questa accozzaglia di titolari di funzioni è ormai estranea al funzionamento del capitale produttivo; nessuno è in senso stretto borghese, proprietario dei mezzi di produzione, ormai detenuti da grandi banche e società di investimento, persone giuridiche nel senso del diritto. Da tempo assistiamo, come Marx aveva intuito, a una nuova fase storica basata sulla subordinazione del capitale industriale a quello finanziario e al rafforzamento della sussunzione reale del lavoro da parte del management.

Noi vediamo chiaramente come il nesso sociale della produzione si impone esclusivamente come legge naturale onnipotente che si oppone non solo alla libera volontà dell’individuo, ma agli interessi della collettività nel suo insieme. Nella Cina odierna il capitalismo di Stato si coniuga efficacemente con il più sfrenato capitalismo privato. Lo schema della purezza impedisce la comprensione della storia del capitalismo, dell’alternanza di fasi di statizzazione e di “liberalizzazione”.

Lungi dall’essere un’anticamera del socialismo, il capitalismo di Stato fu fin dall’inizio un’alternativa interna a un capitalismo irriducibile alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Oggi il capitalismo di Stato cinese “riformato”, assimila socializzazione e nazionalizzazione, in favore di una definizione statalista del socialismo (il rovesciamento consapevole e intenzionale del capitalismo di Stato nel socialismo è una cazzata), che l’ortodossia credeva potesse essere tratta da Marx (sic!), e che si rivelò falsa fin dall’inizio della rivoluzione russa (almeno in ciò Trotskij ebbe ragione).

Il capitale si realizza attraverso l’autodistruzione, perché entra in contraddizione con il suo stesso scopo, lo sviluppo delle forze produttive sia materiali che sociali: “Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono» (ibid., cap. 15).

Tradendo la sua missione storica, il capitalismo si condanna alla morte. I limiti della valorizzazione «si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a sé stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente» (Ibid.).

Il modo di produzione capitalistico ha già sviluppato le sue contraddizioni, non è certo ancora nel suo stato più puro di innocenza verginale, e tutti i suoi antagonismi sono stati sviluppati. Il capitale può avere un futuro, ma non può avere un avvenire, non può che ripetere i suoi antagonismi aggravandoli: “La produzione capitalistica tende continuamente a superare questi limiti immanenti, ma riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più ampia» (ibid.; MEW, 25, p. 260).

Marx non ebbe occasione di vedere all’opera l’impiego dell’energia elettrica, senza la quale il capitalismo sarebbe rimasto un modo di produzione in embrione; tuttavia sapeva che non vi è alcun limite superiore all’espansione del processo di sviluppo, tra l’altro perché il capitale può sempre rilanciare la sua produzione producendo nuovi mezzi di produzione.

Le dinamiche del capitalismo oggi sono quelle previste da Marx. È l’articolazione di tutte queste tendenze che detta il movimento reale del capitalismo. Abbandonato al solo gioco delle leggi del suo dominio, il capitale si muoverebbe verso la regressione o la stagnazione, e invece combatte le proprie tendenze rilanciando l’accumulazione e la concorrenza su basi nuove. Producendo le proprie contraddizioni, il capitale non produce necessariamente la sua caduta, perché produce soluzioni che sostituiscono i suoi antagonismi.

Ma vi sono dei limiti reali e non solo logici, Marx ne era pienamente consapevole. Un esempio di ciò è dato dai limiti ecologici del capitalismo agricolo: «il sistema capitalistico ostacola una agricoltura razionale, ovvero quest’ultima è incompatibile col sistema capitalistico (benché esso ne favorisca lo sviluppo tecnico), e che ad essa sia necessaria l’opera del piccolo proprietario che lavora in proprio ovvero il controllo dei produttori associati» (III, cap. 6).

Il capitalismo può utilizzare soluzioni tecniche e delegare la cura del suolo ad agricoltori o cooperative responsabili, andando quindi oltre il modello di una agricoltura smodatamente intensiva, che avvelena la terra e i suoi prodotti? L’agricoltura capitalistica implica non un’impossibilità tecnica, ma il divorzio tra agricoltura razionale e agricoltura intensiva subordinata al vantaggio della grande proprietà fondiaria capitalistica, la quale «riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita» (III, cap. 47).

Il discorso sui “limiti” può ampliarsi e includere tutti i discorsi che ogni giorno facciamo sulla nostra situazione ormai disperata e disperante, che solo chi vuole essere orbo non vede. Il tema riguarda poi sempre la libertà dell’individuo: «Il regno della libertà comincia solo dove cessa il lavoro, che è determinato da una necessità e da una finalità imposta dall’esterno; esso si colloca quindi per sua natura al di fuori della sfera della produzione materiale propriamente detta».

Il capitalismo ha accresciuto la nostra dipendenza da questa necessità esterna naturale aumentando i bisogni: «Col suo sviluppo, questo regno della necessità si allarga con l’espansione dei bisogni; ma allo stesso tempo le forze produttive si espandono per soddisfarli», scriveva questo gigante del pensiero oltre 150 anni fa. Il modo di produzione capitalistico ha allentato la morsa della necessità, senza abolirla. Anzi, ha reso assolutamente necessario il superfluo fino all’inverosimile.

La prospettiva di Marx implicava una necessità storica lineare che portava il modo di produzione capitalistico al suo stesso superamento nella libera pratica umana, finalizzando la produzione materiale. Questa marcia necessaria alla libertà può essere solo il risultato di tendenze multilineari, della lotta che poggia sulla contingenza dei rapporti di potere, sempre se ci sarà dato il tempo e troveremo la volontà di trasformare i rapporti degli uomini con la natura e i rapporti degli uomini tra loro.

«La lotta delle classi come conclusione in cui si risolve il movimento e la soluzione di tutta questa merda» [***].

[*] Il modo determinato in cui gli uomini producono e riproducono la loro vita immediata, e cioè la struttura dei rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in cui essi operano ad ogni determinato grado di sviluppo delle forze produttive è ciò che chiamiamo modo di produzione. Tra i modi di produzione fondamentali che hanno preceduto quello capitalistico ricordiamo il modo di produzione della comunità primitiva, il modo di produzione schiavistico, il modo di produzione feudale. Altre aree come l’Egitto, l’India, la Cina, hanno conosciuto altri modi di produzione, come quello “asiatico”, ad esempio. La successione dei modi di produzione non segue un ordine ovunque necessario e non sono tutti necessariamente presenti in ciascuna linea di evoluzione delle formazioni sociali.

[**] MEW, 42, p. 437: «Die Ablösung der travaux publics vom Staat und ihr Ubergehn in die Domäne der vom Kapital selbst unternommnen Arbeiten zeigt den Grad an, wozu sich das reelle Gemeinwesen in der Form des Kapitals konstituiert hat».

Ibid., p. 438: «Die höchste Entwicklung des Kapitals ist, wenn die allgemeinen Bedingungen des geseüschaftUchen Produktionsprozeß nicht aus dem Abzug der gesellschaftlichen Revenu hergestellt werden, den Staatssteuern [...] sondern aus dem Kapital als Kapital».

[***] Lettera di Marx ad Engels del 30 aprile 1868. Nella MEOC, vol. XLIII, p. 81, i puristi traduttori italiani hanno svolto “merda” in “porcheria”: «... der Klassenkampf als Schluß, worin sich die Bewegung und Auflösung der ganzen Scheiße auflöst (MEW, 32, p. 75).»

martedì 9 aprile 2024

Dalle steppe russe al mattatoio di Gaza

 

Adolf Hitler non amava le novità. Almeno per quanto riguarda le armi individuali. Era un romantico, affezionato al buon vecchio e potente fucile Mauser 98, nella sua forma abbreviata Karabiner 98 e nel suo calibro originale compatibile con quello delle nuove mitragliatrici (mg 13, mg 15, mg 30, mg. 34). In ciò fu assecondato per anni dallo stato maggiore tedesco.

A quel tempo, le preoccupazioni economiche e logistiche prevalevano sulla modernità, anche se la ricerca balistica sulle munizioni intermedie continuò, perché questo tipo di cartuccia sembrava molto promettente rispetto al vecchio calibro d’ordinanza 8 × 57 della Wehrmacht.

L’obiettivo era quello di sviluppare una munizione intermedia per armi lunghe che potesse sparare a colpo singolo e a raffica con un’efficacia tattica compresa tra quella delle munizioni per armi corte e dei fucili mitragliatori (9 mm parabellum) e tra quella dei fucili di fanteria e mitragliatrici (il citato calibro d’ordinanza 8 × 57 ). Il raggio di utilizzo di queste munizioni avrebbe dovuto essere, in base all’esperienza maturata nei combattimenti della Grande Guerra, tra i 200 ed i 400 metri.

Nell’aprile 1938, l’Heereswaffenamt, l’agenzia per gli armamenti dell’esercito del Reich, concluse, senza autorizzazione dello stato maggiore, con la fabbrica di cartucce Polte di Magdeburgo (Sassonia-Anhalt), un contratto esclusivo per lo sviluppo di una munizione intermedia, che escludeva ogni concorrenza con altre fabbriche.

Dopo numerosi test, la società Polte creò, nel 1941, un munizionamento 7,92 × 33 (7,92 corta o 8 mm corta) nella sua forma definitiva. Questo approccio permetteva di sviluppare un’arma attorno alle munizioni ed evitare così qualsiasi adattamento molto rischioso di nuovo munizionamento per vecchie armi.

Contestualmente, l’Heereswaffenamt (HW) firmava un contratto con la società Haenel di Zella-Mehlis (Turingia) per lo sviluppo di un “fucile a scoppio” (Maschinenkarabiner:  Mk B). L’ingegnere Hugo Schmeißer di Haenel fu l’unico responsabile del suo sviluppo.

Haenel fu in grado di consegnare, nel luglio 1942, 50 armi con la denominazione Mk B 42 H (H per Haenel), 35 furono testate il 3 luglio 1942 nel campo militare di Döberitz (Brandeburgo, a sud di Berlino, Infanterie-Lehr-Regiment ) e, il 9 luglio 1942, nel campo militare di Kummersdorf (Brandeburgo, a sud di Berlino).

L’Mk B 42 H misurava 94 cm e pesava a vuoto 4,6 kg, era dotato di attacco per baionetta, ma era privo di dispositivo lanciagranate. L’HW ne aveva previsto la produzione in serie a partire dal novembre 1942 e consegne mensili di 15.000 Mk B 42 H a partire dal dicembre 1942. Sennonché quando il Führer seppe dei test, andò su tutte le furie. Infastidito per non esserne stato informato, interruppe immediatamente il programma senza conoscere le qualità intrinseche dell’arma, con il pretesto di non volere l’introduzione di nuove munizioni. Questa decisione ebbe gravi conseguenze, perché ritardò la produzione di un’arma rivoluzionaria.

Grazie ad artifici linguistici e progetti fantasma utilizzati per nascondere lo sviluppo dell’Mk B 42, come il progetto Mk B 43 G, utilizzando le munizioni standard della ditta Gustloff (Gustloff-Werke) di Weimar, il programma per l’Mk B 42 riuscì a rimanere attivo.

Tra il dicembre 1942 e il settembre 1943 furono prodotti 11.833 Mk B 42 (sui 150.000 previsti dal programma iniziale). L’arma poté quindi essere migliorata e leggermente modificata (sfiato del gas accorciato e posto sopra la canna e non più sotto, rimozione dellattacco della baionetta). Questarma, in realtà un Mk B 42 H modernizzato, venne denominata mitragliatrice MP 43 (Maschinenpistole) nel luglio 1943, le sue munizioni M 43 (7.92 corte) ribattezzate “cartuccia per pistola” (Pistolenpatrone).

A partire dal luglio 1943, parallelamente alla produzione dell’Mk B 42 (che verrà interrotta nel settembre 1943) e sotto la copertura del ministro degli Armamenti Albert Speer, la ditta Haenel intraprende la produzione in serie dell’MP 43, che venne presentato al Führer, nel settembre 1943, in sostituzione dell’MP 40 (calibro 9 mm Parabellum). Hitler, che nel frattempo aveva letto i resoconti entusiastici sull’efficacia di quest’arma sul fronte russo, si convinse ad autorizzarne l’adozione ufficiale e ne tollerò la produzione di 30.000 esemplari. I primi MP 43 furono consegnati alla fine di ottobre 1943 alla 93a divisione di fanteria di stanza nel settore settentrionale del fronte orientale.

Poco dopo la sua introduzione, l’arma fu elogiata dai suoi utilizzatori: potenza di fuoco devastante nel combattimento ravvicinato grazie al caricatore da 30 colpi e alla cadenza di fuoco di 600 colpi al minuto, buona precisione fino a 400 metri a colpo singolo, basso rinculo. Buona manovrabilità, grande affidabilità e infine portata massima utile di 600 metri. Anche le nuove munizioni furono un successo: buon potere di arresto e di penetrazione.

Tutto fu fatto per semplificare le tecniche costruttive dell’MP 43 in modo da aumentare i ritmi di produzione: il telaio, il caricatore in lamiera stampata e saldata, la canna saldata alla parte anteriore dello châssis, gli assi fissi di numerose parti rivettate e il calcio tenuto da un dado. La finitura venne semplificata in fase di produzione: il calcio, grezzo, in legno massiccio venne presto sostituito da materiale lamellare incollato, poi da materiale plastico per gli ultimi modelli, piastre di presa in legno poi anche in plastica; il metallo, inizialmente bronzato, è stato successivamente fosfatato per essere verniciato o verniciato solo nelle ultime serie.

I difetti riconosciuti erano il peso, il caricatore ed il telaio in metallo. Pesava quasi 5,4 kg carico; il lungo caricatore verticale impediva di sparare da sdraiati e quindi rendeva felici i cecchini sovietici: la grande cassa metallica richiedeva l’uso di guanti in condizioni di freddo estremo (rischio di congelamento). Dopo questo riuscito battesimo del fuoco, era necessario aumentare la produzione. Dall’aprile al dicembre 1943 furono assemblati 19.501 MP 43, decisamente troppo pochi considerando le necessità delle truppe sul terreno. La richiesta di questo tipo di armi è andata di pari passo con il deterioramento della situazione sul fronte orientale.

Il 25 aprile 1944 l’arma venne ribattezzata MP 44, senza alcun cambiamento apparente. Fu solo nel luglio di quell’anno che la produzione dell’MP 44 fu considerata una priorità. Il 2 ottobre 1944 l’MP 44 prese il nome di StG 44, Sturmgewehr 44, fucile d’assalto. La produzione totale degli MP 43, MP 44 e StG 44 ammontò a 281.860 per l’anno 1944. L’StG 44 fu prodotto dal 1° gennaio al 1° aprile 1945 in 124.616 esemplari. La produzione totale dal 1942 (compreso il Mk B 42) al 1° aprile 1945 ammontò a 437.694 esemplari, quella delle munizioni da 7,92 a quasi 900 milioni.

Ancora una volta, il ritardo causato dalla caparbietà di Hitler non fu recuperato. Il fucile d’assalto Modello 44 (Sturmgewehr 44) non riuscì mai a sostituire come previsto il Mauser K98, nonostante la sua evidente superiorità.

I primi ad interessarsi al fucile d’assalto tedesco furono i sovietici. Non appena furono catturati i primi Mk B 42, gli ingegneri sovietici si misero al lavoro per produrre un’arma equivalente e, se possibile, migliore. Alla fine del 1942, i sovietici valutarono la carabina americana USM 1 e Mk B 42. Dopo i test, decisero immediatamente di sviluppare un’arma simile all’Mk B 42, che sparasse anche con una munizione intermedia. Già nel novembre 1943 il servizio tecnico degli eserciti aveva sviluppato la munizione 7,62 × 41 M 43 che sparava un proiettile da 8 g, copia perfetta della 7,92 × 33 tedesca. Nella primavera del 1944 furono progettate non meno di dieci armi semiautomatiche che utilizzavano queste munizioni.

A metà del 1944, il fucile d’assalto AS 44 (Avtomat Sudayeva), dell’ingegnere Alexey Sudaev, fu selezionato e prodotto in una piccola serie per la valutazione. Quest’arma, per l’aspetto e per le soluzioni tecniche adottate, era molto simile allo Sturmgewehr 44. La produzione dell’arma fu avviata nella primavera del 1945 per essere distribuita alle truppe durante l’estate del 1945. I soldati furono molto soddisfatti dell’AS 44, l’unica critica riguardava il suo peso elevato, più di 5 kg con un caricatore da 30 colpi. All’inizio del 1946, la commissione di valutazione chiese la ripresa delle ricerche per alleggerirlo.

Il 24 ottobre 1946, Hugo Schmeißer, padre del fucile d’assalto tedesco, fu “invitato” dalla commissione tecnica dell’Armata Rossa, insieme ad altri ricercatori tedeschi, ad unirsi all’Unione Sovietica per mettere a disposizione il loro know-how nelle armi. Schmeißer fu distaccato presso le fabbriche di armi leggere di Ishevsk (Urali) dall’ottobre 1946 al giugno 1952. Se l’esatta natura del lavoro che dovette svolgere lì resta sconosciuta, è certo che fu un prezioso consigliere per lo sviluppo del futuro fucile d’assalto sovietico.

Michail TimofeeviKalanikov (1919-2013), comandante di carro armato, fu gravemente ferito nel 1941. Durante la sua degenza in ospedale progettò un fucile mitragliatore, che fu rifiutato perché troppo complesso. Fu integrato nell’ufficio di progettazione delle armi di fanteria dell’Armata Rossa, vicino a Mosca, per continuare la sua formazione e lavorare su diversi sistemi d’arma. Nel novembre 1946, Kalashnikov aveva sviluppato il prototipo del fucile d’assalto AK 46, arma camerata per la nuova cartuccia intermedia 7,62×39 e pronta per una serie di test che si svolsero nel dicembre del 1946. Cinque prototipi dovevano concorrere per una prima serie di prove. L’arma di riferimento era la Sudaev 44, il cui sviluppo era stato interrotto a causa della morte improvvisa di Sudav all’inizio del 1946.

L’AK 46 è stato fortemente ispirato dal Sudaev 44 (sistema di presa del gas superiore, mira, caricatore inclinato e forma generale). Kalashnikov realizzò prima un modello sperimentale completamente diverso da quello che conosciamo oggi: l’Ak-46 infatti utilizzava un pistone a corsa corta presente già in altre soluzioni russe, molla di ritorno diversa con ampia guida telescopica, due distinti semicastelli articolati tra loro e trattenuti da due perni passanti (schema simile a quello dello StG-44), leva selettrice e tiretto di armamento sul lato sinistro e bocchettone di alimentazione. Guardando le realizzazioni odierne, l’Ak-46 appare addirittura concettualmente più moderno dell’Ak-47.

Durante il secondo turno di prove di eliminazione, solo tre armi rimasero in competizione: l’AK 46 di Kalashnikov, l’AB 46 di Bulkin (Avtomat Bulkina-46) e l’AD 46 di Dementiev. Dopo l’ultima serie di test, l’AK 46 del Kalashnikov fu rifiutato in quanto inferiore ai suoi concorrenti sotto molti aspetti. Nell’elenco rimasero solo AD 46 e AB 46, la commissione preferì Bulkin (AB 46). Pare che Kalashnikov utilizzò i suoi legami politici e i suoi contatti personali con la commissione per evitare di essere eliminato. Ottenne il permesso di continuare le sue ricerche (assistito da un esperto ingegnere bellico, Zaitsev, capo dipartimento presso l’ufficio di progettazione delle armi Korov vicino a Mosca) per sviluppare e migliorare l’AK 46 per una nuova serie di test, che divenne l’AK 47, la cui meccanica interna assomiglia molto al Bulkin 46.

L’AK 47 venne sottoposto ad una nuova serie di test che superò brillantemente, soprattutto in termini di affidabilità, con però una riserva sulla stabilità al fuoco a raffica (il Bulkin, restando superiore). La commissione di prova diede il via libera nel novembre 1947 per testare l’arma con le truppe, e la produzione in serie dell’AK 47 iniziò a Izhevsk nel 1948. L’AK 47 (Avtomat Kalashnikova 47), è in realtà una coproduzione di Kalashnikov, Zaitsev, Bulkin e Suadev. Kalashnikov ricevette la paternità ufficiale.

Non si può negare l’evidenza, e cioè la parentela tra l’AK 47 con lo Sturmgewehr 44, per diverse specifiche iniziali. L’AK 47 riprendeva infatti alcune soluzioni dell’StG 44: munizionamento intermedio, sistema di presa del gas dalla parte superiore della canna, caricatore inclinato da 30 colpi, lunghezza simile (94 cm per l’StG 44 e 87 cm l’AK 47, peso a vuoto di 4,6 kg e di 4,3 kg, cadenza di fuoco di 600 colpi/minuto e gittata massima utile di 600 metri; stesso aspetto generale, stesso concetto di utilizzo. La grande differenza tra le due armi era il sistema di bloccaggio della culatta.

Il blocco occidentale è stato più titubante nell’adottare delle armi di questo tipo, perché in occidente la diversità regna sovrana. Questa diversità è certamente dovuta alle diverse zone di influenza in cui i vari Paesi si sono impegnati in una feroce competizione commerciale per le quote di mercato (e decenni di errori). Anche la competizione contro i Kalashnikov è stata molto dura.

L’AK 47/59 è un bell’esempio di genitorialità di successo, universale grazie al suo potente calibro che è allo stesso tempo antiuomo e antimateriale. Va notato che due paesi del blocco occidentale hanno adottato armi che utilizzano il sistema Kalashnikov come armi standard: la Finlandia con il Valmet 62, prodotto su licenza, e Israele con il Galil (derivato dal Valmet, l’AK 47 è ancora in dotazione nella versione più moderna IMI Galil ACE, assieme all’innovativo IMI TAR-21).

Il Galil merita una menzione speciale. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, l’esercito israeliano riuscì a recuperare e testare un vasto stock di Kalashnikov. Gli israeliani erano equipaggiati con fucili FAL 7.62 Nato, ingombranti, costosi e poco precisi (con un serbatoio di 20 colpi e tromboncino per granate Energa, furono in dotazione anche in Italia). Rimasero colpiti dalle qualità dell’AK 47 che, oltretutto, è molto economico. I fratelli Galil svilupparono un fucile d’assalto copiando il sistema Kalashnikov.

Il Galil fu adottato dall’esercito israeliano nel 1972, dapprima con un calibro più piccolo 5,56×45 (calibro M16, 5,56 Nato), poi con il 7.62 Nato. La produzione è stata affidata alla Israel Military Industries. L’arma può essere considerata come una copia più leggera dell’AK 47. Accordi privilegiati tra lo Stato di Israele e il Sud Africa, ai tempi dell’apartheid, hanno permesso di produrre su licenza il Galil l’arma standard dei sudafricani. Il Galil viene ancora prodotto in Sudafrica e rifornisce le varie reti di traffico di armi nell’Africa nera. Il Galil è l’arma standard dell’Estonia.